Abitare
Abitare è un concetto che rimanda a un senso di stabilità. Ma abitare è soprattutto un’azione, un verbo, un processo dinamico e trasformativo, la cui storia recente ha seguito quella dei processi produttivi: inurbamento e conurbazione sotto la spinta delle diverse ondate della rivoluzione industriale. Un secolo e mezzo di consumo di suolo crescente e massivo, concentramento della popolazione, politiche di zoning, suddivisione e controllo del territorio. Questa storia tende però a nascondere un’ampia gamma di resistenze a tali processi, un abitare ai margini dello sviluppo capitalista, un filo rosso di sperimentazioni che ha le sue radici nel contrasto ai primi processi di possesso e privatizzazione della terra.
A partire dalla fine del 1600 in Gran Bretagna venivano editti i primi provvedimenti che sancivano la chiusura e la privatizzazione dei commons, le terre comuni su cui contadini e allevatori vivevano e lavoravano. Con tali provvedimenti viene posta in essere una delle basi della modernità occidentali per come la conosciamo ancora oggi. Allo stesso tempo, si sviluppavano le prime comunità marginali al limite tra rurale e urbano. Ben prima di diventare periferie erano slums. Poi sono stati chiamati barrios, tugurios, favelas, bidonvilles, kampungs, gecekondular o coree.
In questi luoghi si è sviluppata e sperimentata una varietà di stratagemmi abitativi e di vita al limite della legalità, necessari alla sopravvivenza di modelli di vita che lo sviluppo capitalista ha la responsabilità di aver prima creato e in seguito cercato di distruggere.
Un ingegno popolare trasmesso per via orale, che è sopravvissuto per secoli a trasformazioni geografiche e sociali.
La casa in una notte
Sergio Cabrera, con il suo film del 1993 “la strategia della lumaca” ha cercato di drammatizzare l’idea per cui se una casa viene costruita in una notte ed è arredata con quattro sedie e un tavolo prima dell’alba, questa non può essere distrutta. Quarant’anni prima Luchino Visconti raccontava una storia simile. Nel suo “Il tetto” una coppia di giovani è costretta a trasferirsi in una borgata nella periferia romana e a costruirsi una casa con l’aiuto di amici. Per evitare controlli, la casa può essere costruita solo di notte: saranno poi i templi biblici dei tribunali civili Italiani a garantirne la sopravvivenza. Variazioni sullo stesso tema sono presenti in gran parte del mondo: dall’Italia alla Bolivia, dov’è ambientato “La strategia della lumaca”; dalle favelas Brasiliane, dove le occupazioni organizzate di terre avvengono con il favore della notte e l’installazione del tetto è un momento da celebrare, ai sobborghi delle città turche, i gecekondular, da gece – notte, e kondu – porre, mettere.
Tracce di racconti simili sono riscontrabili nel Galles rurale, fin dal diciottesimo secolo. Ty-unnos, letteralmente la casa in una notte, è la base su cui si è costruito un ricco sistema di usanze di resistenza alle enclosures. Come tutte le storie trasmesse oralmente i dettagli cambiano e se per alcuni basta avere un tetto e quattro mura prima dell’alba, per altri il fuoco dev’essere acceso nel camino, o una pentola deve bollire.
Come ricordava Colin Ward, molte di queste leggende affermano di rifarsi a antichi codici e tradizioni del diritto: germanico, romano, ottomano…, probabilmente nessuno sa da dove arrivi questo folklore sovversivo. Di tracce scritte non ce ne sono. Restano invece le tracce materiali di quello che questo folklore ha ispirato, mischiandosi con l’ingegno popolare e la necessità di campare al margine dello sviluppo.
Dalla casa alla città
Al cuore di tutti questi racconti sta la rivendicazione materiale di un diritto, il diritto alla casa, come diritto primario, base necessaria da cui partire per dispiegare le proprie potenzialità. Questo è il filo rosso che lega queste esperienze tra storia e folklore alle sperimentazioni e le lotte delle periferie odierne. Nella modificazione di contesti e paesaggi le modalità di aggiramento e superamento dei limiti posti trovano nuove forme e nuovi percorsi. Soggettività diverse e nuove criticità ampliano la gamma dei quesiti da risolvere, ma anche degli strumenti e delle risposte a disposizione. Il diritto alla città non è solo diritto alla casa, ma trova in esso ancora oggi uno dei suoi nodi cruciali. La fine rovinosa delle lotte degli anni Settanta ha lasciato briciole che sono state raccolte dalla popolazione più attenta dei decenni seguenti, esperimenti di riappropriazione e trasformazione del territorio urbano hanno accompagnato lo smantellamento del patrimonio industriale di molte metropoli italiane: i centri sociali, per una manciata di anni, sono stati tra i pochi attori capaci di offrire alternative sociali accessibili e propositive all’interno di panorami urbani periferici degradanti, così come le esperienze di gestione comunitaria del patrimonio pubblico hanno attivato nuovi circuiti relazionali e di solidarietà tra fasce della popolazione prima separate pur vivendo nello stesso luogo.
Il diritto alla città ha le sue radici più nascoste nelle tradizioni sediziose delle comunità sviluppatesi sul margine dello sviluppo industriale, in quell’ingegno popolare scaturito dalla necessità di trovare soluzioni altre, al di fuori di quelle date.