Spesso l’arte (ad esempio la grande letteratura) riesce ad andare al cuore dei problemi e ad illuminare i fenomeni molto meglio dei nostri ‘occhiali’ di giuristi (espressione cara ad Arturo Carlo Jemolo), pur sempre ‘necessari’, ma talvolta ‘deformanti’.
Durante la ‘clausura’ derivante dalla pandemia, ho avuto occasione di rileggere il romanzo Cecità di José Saramago (Lisbona 1995). In esso si trova un passaggio inquietante per un giurista e non solo per un giurista. All’inizio dell’‘epidemia’ si leva il grido di alcuni ‘ciechi’ confinati in un ex manicomio: “Siamo rinchiusi, Moriremo tutti qui, Il diritto non esiste”. Queste parole ci spingono a riflettere sulla necessità della presenza del diritto e delle sue garanzie affinché l’umanità possa restare veramente tale. Certo, come l’esperienza di questi tempi dimostra in modo evidente, l’equilibrio tra sicurezza e libertà, specie negli ordinamenti democratici, è difficile da trovare, e ciò vale anche per il diritto fondamentale di libertà religiosa.
Si tratta di una garanzia le cui coordinate essenziali erano fissate già dall’Editto di Milano dell’imperatore Costantino (313 D.C), che vi ricomprendeva la “libera facoltà di seguire la religione che ciascuno voglia” e quella di “praticare liberamente la religione che ha scelto”. Dunque, la libertà di professione religiosa, e più in generale di coscienza, e la libertà di culto, sono tuttora i cardini della libertà religiosa. Del resto, Francesco Ruffini, il primo e più importante studioso italiano del tema, la definiva come “facoltà spettante all’individuo di credere quello che più gli piace, o di non credere, se più gli piace, a nulla”, considerandola non un concetto o principio “filosofico”, né “teologico”, ma “essenzialmente giuridico” (La libertà religiosa storia dell’idea, Torino 1911). E precisava che tale libertà non si riferisce tanto “al fatto puramente interiore dell’intimo sentimento religioso od areligioso o magari antireligioso”, ma più propriamente alla “sua esteriore manifestazione” (La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, Torino 1924).
Particolare della porta minore di sinistra del Duomo di Milano Raffigurante l’Editto di Milano
(Arrigo Minervi, scultore della I meta del XX secolo)
A tali esigenze risponde pienamente la vigente Costituzione repubblicana del 1948, che garantisce ampiamente la libertà religiosa nella sua triplice dimensione individuale, collettiva e istituzionale. In particolare, per l’art. 19 della Carta,
“tutti” hanno il diritto di “professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”.
E per l’art. 8, comma 1, della Costituzione, “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge”. In base al principio di bilateralità, sancito dagli articoli 7, comma 2, e 8, comma 3, della Carta, molti accordi tra lo Stato italiano e le confessioni religiose prevedono un riconoscimento di specifici aspetti della libertà di religione. Ad esempio, per l’art. 2 dell’Accordo di Villa Madama tra Italia e Santa Sede del 1984, la Repubblica riconosce alla Chiesa cattolica la “piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione”, assicurandole “la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica”. E norme simili sono dettate da diverse intese tra Stato e confessioni diverse dalla cattolica.
Questi principi trovano rafforzamento ed ulteriori specificazioni nella normativa internazionale ed europea in tema di libertà religiosa. Si pensi, ad esempio all’art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, per il quale
“ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti”.
La libertà religiosa, si aggiunge, “non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la pubblica sicurezza, la protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui”.
A ben vedere, la norma della CEDU indica espressamente la “salute” come possibile limite, in una “società democratica”, anche per la libertà religiosa. La Costituzione non prevede ‘esplicitamente’ tale limite, ma esso è implicitamente presente, perché la vita, tutelata dalla salute (art. 32 Cost.), è il bene supremo alla cui realizzazione deve tendere ogni ordinamento.
L’esplodere della pandemia di Covid 19 nel nostro Paese, e la conseguente normativa ‘emergenziale’, ha avuto un notevole impatto sulla tenuta dei principi costituzionali. Il decreto legge 23 febbraio 2020 (n. 6), convertito in legge 5 marzo 2020 (n. 13), attribuisce alle “autorità competenti” (Presidente del Consiglio, Ministri della Salute e dell’Interno) i poteri necessari per “adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica”. Da qui è derivata una serie di Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM), emanati in maniera ‘alluvionale’, che hanno definito in dettaglio le restrizioni riguardanti la libertà di circolazione, di riunione, di iniziativa economica privata (artt. 16, 17 e 41 Cost.) ed anche la manifestazione pubblica del culto (19 Cost.). Su quest’ultimo punto il DPCM dell’8 marzo 2020 imponeva la sospensione delle “cerimonie civili e religiose, ivi comprese quelle funebri”. La previsione di “limitazione dell’ingresso nei luoghi destinati al culto” presupponeva, però, anche la possibilità di apertura condizionata “all’adozione di misure organizzative tali da evitare assembramenti di persone e tenendo conto delle dimensioni e delle caratteristiche dei luoghi, in modo da garantire ai frequentatori la possibilità di rispettare la distanza di almeno un metro”. Merita sottolineare che questa normativa dettata dall’urgenza, pur criticata non senza qualche ragione da diversi studiosi sotto il profilo formale e sostanziale, sia stata rigorosamente accettata e osservata dalle autorità di tutte le confessioni religiose. Papa Francesco, ad esempio, il massimo rappresentante della Chiesa Cattolica (religione maggioritaria nel nostro Paese), in un’omelia del 28 aprile 2020, ha invitato i fedeli a pregare “il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e della obbedienza alle disposizioni, perché la pandemia non torni”.
Con l’attenuazione dell’emergenza sanitaria, a partire da maggio 2020, si è avviata un’interlocuzione dello Stato con le organizzazioni confessionali, in primis con la Conferenza Episcopale Italiana, culminata in una serie di Protocolli sulla ripresa, a determinate condizioni, delle “celebrazioni liturgiche e religiose”. A tali protocolli, frutto del dialogo tra istituzioni pubbliche e confessioni, sottoscritti nel maggio del 2020, hanno fatto riferimento i DPCM del 17 maggio e del 11 giugno 2020. La recrudescenza del virus, con la c.d. seconda ondata, ha, almeno per il momento e per tutto il territorio nazionale (a prescindere dalle zone gialle, arancioni e rosse), lasciato in vigore tali protocolli, confermando il punto di ‘equilibrio’ raggiunto nei rapporti tra Stato e confessioni religiose, a garanzia del diritto di libertà religiosa (cfr. DPCM 3 novembre 2020).
Prima pagina del Protocollo per la ripresa delle celebrazioni con il popolo del 7 maggio 2020.
Come si è accennato in esordio, un equilibrio tra libertà e sicurezza deve essere sempre cercato, per non precipitare nella ‘barbarie’ di un’umanità bestiale e feroce, quale quella che emerge dalle pagine di Saramago, nel suo citato romanzo Cecità. E il bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, come quelli alla salute e alla libertà religiosa, va operato “secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale” (cfr. Corte Cost., sent. n. 85/2013).
Nel celebre romanzo di Albert Camus La peste (Parigi 1947), si assiste a un significativo confronto tra il dottor Rieux, medico degli appestati di Orano, con il suo ‘umanesimo’ laico, e Padre Paneloux con la sua visione religiosa della vita e della storia. Paneloux osserva che Rieux sta comunque lavorando per la “salvezza dell’uomo”, e il dottore risponde: “La salvezza dell’uomo è un’espressione troppo grande per me. Io non vado così lontano. La sua salute m’interessa, prima di tutto la sua salute”. Ma ambedue riconoscono, pur nella diversità delle rispettive posizioni, di impegnarsi insieme per qualcosa che riunisce “al di là delle bestemmie e delle preghiere”, vale a dire l’uomo nella sua vita e nella sua dignità.
Si tratta di un diritto forse ancora più importante della stessa libertà religiosa, evocato da Papa Francesco nel pieno della pandemia, durante la veglia pasquale dell’11 aprile 2020, e che può unire credenti (di tutte le religioni) e non credenti, il “diritto alla speranza” che “non ci sarà tolto”.