Nella terza settimana di guerra in Ucraina la Russia ha posto in essere una mossa che, seppur passata in secondo piano nel quadro della complessa strutturazione del conflitto, ha una valenza potenzialmente globale: il blocco di trecento navi da trasporto ucraine nel Mar Nero, principalmente nel porto di Odessa, a cui si è associata la graduale destrutturazione delle esportazioni di grano da parte di Mosca. Questa mossa ha effetti potenzialmente destabilizzanti su scala globale: Odessa e gli altri porti ucraini sono hub cruciali per l’export di grano da parte di Kiev. E alla guerra delle sanzioni e all’offensiva economica condotta dall’Occidente nei suoi confronti la Russa pare voler rispondere con una guerra ibrida sfruttando le debolezze di avversari politici che ne contrastano le mosse. Vediamo perché.
La Russia produce quasi 80 milioni di tonnellate di grano all’anno esportandone circa 30 milioni, mentre l’Ucraina ne esporta dalle 20 alle 25 milioni di tonnellate annue.
Russia e Ucraina coprono una parte consistente delle esportazioni globali di grano (35%), orzo (25% e olio di girasole (75%) oltre a mais e colza, materie prime vitali per l’industria alimentare europea, prima tra le manifatture alimentari mondiali, che dipende da Mosca e Kiev per oltre metà delle sue forniture. Ebbene, a causa della guerra, l’Europa soffre la carenza di grano russo e ucraino, con conseguenze dure sul fronte dell’inflazione e della stabilità geopolitica. Le dinamiche di prezzo lo testimoniano, e possiamo comprenderlo analizzando l’evoluzione del future sul prezzo del grano, che a inizio febbraio era valutato 764 dollari al bushel. Ebbene, il 7 marzo, nel pieno della guerra, il suo prezzo era salito a 1258 dollari, registrando un aumento di circa il 40%. In seguito è sceso, stabilizzandosi però ampiamente sopra i mille dollari al bushel (quantità paragonata a un volume di circa 35 litri).
E non finisce qui. La “battaglia del grano” con cui la Russia risponde alle sanzioni attraverso il blocco navale al porto più strategico d’Ucraina, che secondo il giornalista Ugo Poletti (direttore di The Odessa Journal) sfama con le sue esportazioni 400 milioni di persone, ha conseguenze geopolitiche non indifferenti in quanto getta l’ombra di una crisi alimentare e sociale nell’estero vicino più caldo dell’Occidente, l’area compresa tra il Nord Africa e il Mediterraneo.
Paesi come la Tunisia e l’Egitto già registrano carenze alimentari e tensioni interne e sul Maghreb si staglia, nuovamente, l’ombra delle Primavere Arabe. Le quali, oltre un decennio fa, ebbero come innesco proprio le conseguenze di una grave crisi alimentare e inflattiva di portata globale.
Questa dinamica è l’esempio più lampante di una strategia indiretta di guerra ibrida con cui la Russia mira ad alleggerire la pressione esercitata nei suoi confronti dai suoi avversari sfruttando le armi dell’Occidente: l’interconnessione dei mercati delle materie prime, la finanziarizzazione, la fluidità delle catene del valore. Non bisogna dimenticare, in quest’ottica, che di fatto la Russia è in guerra su ben sei domini. Tre di essi la vedono contrapporsi al Paese da lei invaso, l’Ucraina, e sono quelli più convenzionali: terra, aria e, più limitatamente, mare. Ma altri tre presentano un confronto a tutto campo con l’Occidente: la guerra delle intelligence, con l’Occidente in prima linea a usare i servizi segreti per confondere la Russia e fornire informazioni privilegiate a Kiev, il braccio di ferro cyber, che non è fortunatamente ancora degenerato in guerra cyber indiscriminata, e soprattutto il fronte economico della rivalità. Fattispecie, queste, che hanno portato lo storico militare Gastone Breccia a definire quella in Ucraina la prima “guerra senza limiti” della storia.
Il blocco di Odessa cade, del resto, in una fase in cui la volatilità dei prezzi delle materie prime mette a repentaglio la ripresa occidentale post-Covid; in cui, soprattutto per l’Europa, il decoupling energetico dalla Russia si dimostra complesso; in cui la crisi dei semiconduttori non si è ancora risolta e, soprattutto, incombe il rischio del blocco a causa di lockdown del porto cinese di Shenzen, terzo al mondo per capacità.
La mossa asimmetrica della Russia è funzionale certamente a stringere la morsa su una città prossima all’assedio, ma mira principalmente a causare un vero e proprio infarto alle catene di fornitura globali e a portare le tensioni conseguenti nel cortile di casa dell’Occidente, sotto forma di rincari, inflazione e destabilizzazione dell’estero vicino.
Si tratta, in questo caso, dell’applicazione della strategia teorizzata dal generale Valerij Gerasimov, capo di Stato maggiore dato oggi in rotta con Vladimir Putin. Gerasimov è noto per il suo famoso articolo sulla guerra ibrida pubblicato nel 2013 su Voenno-Promyshlennyj Kuryer (testata russa il cui titolo è traducibile come “Corriere Militare-Industriale”), denominato The value of science is in the foresight: new challenges demand rethinking the forms and methods of carrying out combat operations. Un articolo, ha scritto l’analista militare Paolo Mauri su Inside Over, che teorizza una guerra ibrida fondata su “un mix di componenti diplomatiche, pressione economica e politica e altre ingerenze non militari (facendo tesoro quindi della metodologia occidentale) per riuscire ad annientare il nemico, magistralmente messo in atto durante il colpo di mano in Crimea (ma molto meno riuscita in Donbass)”. Sfruttando un mezzo di pressione oggi applicato verso l’Occidente piuttosto che verso l’Ucraina. Perché la guerra ibrida finisce al primo colpo di cannone tra due eserciti convenzionali. Ma nei tre fronti di contrapposizione tra Mosca e l’Occidente a tale colpo, fortunatamente, non si è ancora arrivati. Per quanto questo non renda la contrapposizione meno pericolosa in termini di escalation. Come il caso Odessa dimostra in tutta la sua complessità.