Ricordare Giacomo Matteotti per capire la natura politica del fascismo
Il testo che segue è l’editoriale che Angelo Tasca pubblica su “Il Nuovo Avanti!”, settimanale del Partito socialista italiano, nel decennale dell’assassinio del deputato socialista.
È significativo che in quella circostanza l’interventi di Tasca non si limiti a una commemorazione, ma sia una proposta interpretativa sulla politica e sulla tecnica di governo, nel momento del massimo consenso al regime, anche sui malesseri che lo accompagnano (il riferimento al discorso del 26 maggio è all’intervento che Mussolini tiene a Montecitorio sulla situazione economico-finanziaria del Paese e in cui sostiene la ripresa economica che nei fatti non c’è).
Un modo di leggere una congiuntura, ma anche di dare un’interpretazione della trasformazione della politica prodotta dalla dittatura, ovvero di parlare dei malesseri del giorno, a partire da un avvenimento che aveva radicalmente modificato la condizione politica dell’Italia.
Angelo Tasca
Dopo dieci anni
Nel 1924 il regime fascista ha attraversato una crisi che l’ha condotto a due dita dallo sfacelo. E’ probabile che Mussolini abbia avuto in quel periodo la sensazione precisa che la via ch’egli aveva seguito era senza ritorno. Un «pacifico tramonto» del fascismo gli è certo allora apparso impossibile. Non gli restava più che la «fuga in avanti», ch’egli ha adottato col coraggio della disperazione, poiché quella era l’unica carta su cui poteva puntare.
L’odio ch’egli aveva consacrato a Giacomo Matteotti non è un semplice momento della psicologia mussoliniana, un episodio tragico, ma effimero della sua arte di governo. Quest’odio aveva ragioni più profonde, e ci offre la chiave e della personalità di Mussolini, e del destino del regime ch’egli rappresenta.
Giacomo Matteotti era la personificazione, viva e militante, di quei valori morali, umani che Mussolini aveva incontrato sul suo cammino come un ostacolo e di cui diffidava come del peggiore nemico, poiché non riusciva a ridurli a proprio strumento. Questi valori sono rimasti in fondo sempre inaccessibili a Mussolini e quand’egli li definisce «astrazioni» non fa della filosofia, ma dell’autobiografia. Quanti di noi l’hanno conosciuto nell’anteguerra, hanno potuto illudersi talora che dietro l’energetica mussoliniana ci fosse un’etica, che la violenza del suo stile traducesse delle profonde esigenze insoddisfatte e affermantesi contro tutto e contro tutti.
Mussolini invece non ha mai potuto andare al di là dell’avventura. Quando egli si definiva, sul Popolo d’Italia del gennaio 1919 «un cinico insensibile ormai a tutto ciò che non sia avventura e pazza avventura» esagerava anche qui, faceva il bravaccio, come la sua «letteratura» lo esigeva, ma traduceva pertanto un bisogno assoluto di indisciplina intellettuale e morale, frutto del suo divorzio organico da qualsiasi concezione puramente «estetica» della vita. Non è il caso qui di soffermarsi a precisare come egli, autodidatta in cerca di teorie che gli servissero, e a cui non dovesse servire, si sia buttato su tutte le «mode» che giungevano a farsi strada, spesso deformate e sempre in ritardo, in quella grande provincia ch’è l’Italia. Così egli ha saccheggiato, coll’abilità di un cambrioleur che si dirige d’istinto là dove troverà quanto gli conviene, di volta in volta Nietzsche, Sorel, Bergson, Gentile, arrivando più tardi, a selezionare nella storia dei miti Machiavelli e Giulio Cesare, nello stesso modo e per lo stesso fine.
Giacomo Matteotti era l’uomo che incarnava un’Idea. Per Lui l’azione politica e sociale non era più la semplice ricerca del successo, ma del successo in un senso determinato, per dei fini dai quali soltanto la lotta traeva la sua giustificazione. Ciò era insopportabile a Mussolini, che avrebbe voluto poter giuocare con tutte le ideologie, senza legarsi ad alcuna, conservando intera libertà di manovra, e al solo scopo di «potere» e di «durare».
Mussolini e Matteotti esprimono veramente due mondi inconciliabili. Mors tua vita mea è la legge che li oppone, e che sta alla base del «totalitarismo» fascista. E’ perciò che nessuna «riforma» del fascismo è possibile perché la più piccola breccia che vi si aprisse finirebbe col far crollare tutto il sistema.
Quando noi opponiamo Matteotti a Mussolini non opponiamo soltanto due uomini o due psicologie. La sconfitta dell’uno e la vittoria dell’altro sono veramente sconfitta e vittoria di differenti classi sociali.
L’odio di Mussolini contro il movimento operaio e socialista è un odio teologico: la classe operaia è quella che aveva raccolto, sia pur con beneficio d’inventario, gli «ideali» a cui la rivoluzione borghese aveva dato la spinta, per poi abbandonarli e tradirli in seguito. Tutti gli errori, le deficienze, le degenerazioni del movimento operaio e socialista non annullavano questo fatto, ed esso trae ispirazione o-al di là di oblii e di egoismi transitori – da una concezione della vita il cui contenuto e il cui senso sono chiari nella coscienza di coloro che lottano per realizzarla. Questo contenuto e questo senso, a cui si possono, magari, trovare precedenti in taluni spunti della predicazione evangelica, si sono meglio precisati nel movimento di idee che ha preceduto e accompagnato la Rivoluzione francese, e hanno trovato la loro espressione più piena e più alta nell’ «umanismo rivoluzionario» dei movimenti operai (cartismo in Inghilterra, comunismo in Germania, blanquismo in Francia) e nell’opera teorica di Marx nel secolo decimonono. E dall’altro lato della barricata, quando si vada al di là delle maschere e delle antitesi verbali, l’ossessione mussoliniana del successo non è che uno dei riflessi ideologici della ossessione capitalistica del profitto. Entrambe ubbidiscono allo stesso principio, che è quello di non accettare vincoli di principi. Per entrambe l’uomo è mezzo e non fine, ridotto nella produzione a semplice appendice della macchina, o nella vita civile a semplice appendice dio una più grande macchina, lo Stato.
Dopo dieci anni dall’assassinio di Matteotti il fascismo ha presentato, col discorso del duce del 26 maggio, il proprio bilancio. Se in Italia ci fosse un’opinione pubblica, potremmo dire che Mussolini ha deposto il proprio bilancio fallimentare davanti al tribunale dell’opinione pubblica. Il suo discorso è la conferma di quanto noi abbiamo sempre sostenuto: che il fascismo non solo non potrà risolvere nessuno dei problemi essenziali della vita italiana, ma che cercando sempre ·e soltanto il successo immediato (poiché bisogna «durare») ha sempre agito nel senso del minimo sforzo, della minor resistenza. Anche – quando questa politica è apparsa più lungimirante (come nel caso della resistenza all’inflazione monetaria), essa è stata dettata dall’istinto di conservazione, è stata non già vera politica, ma arte di governo. Mussolini è certamente un abile uomo di governo, non è e non sarà mai un uomo di Stato: da questo punto di vista non arriva neppur alla suola delle scarpe di Cavour.
Dopo dieci anni, dopo aver in una delle sue tante variazioni letterarie affermato che il compito del fascismo era quello di dare «più benessere» al popolo italiano, Mussolini deve confessare che la vita di questo popolo tende a stabilizzarsi a un tenore più basso. In compenso, gli offre un’alta dose «di ascetismo e di eroismi». Ascetismi e eroismi sono anche qui nient’altro che una tecnica di governo, la morfina fatta ragion di Stato, la febbre divenuta misura e succedaneo della salute. Noi crediamo, con Giacomo Matteotti, che il socialismo e la classe operaia non possono vincere, anche quando le circostanze sono propizie, senza spiegare un enorme somma di forze morali, individuali e collettive. Ma il nostro è il solo idealismo rivoluzionario, potremmo dir il solo idealismo, perché esso ha un contenuto storico: la rivolta di milioni di proletari contro la società attuale, è un fine concreto: l’accesso delle masse lavoratrici, e cioè dell’umanità, a un maggior benessere e a forme superiori di convivenza sociale.
Angelo Tasca, Dieci anni dopo, in “Il Nuovo Avanti! (L’Avvenire dei Lavoratori)”, 9 giugno 1934, n. 23