Ricercatore per l’Osservatorio sulla Democrazia di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Sul finire degli anni ottanta, la conclusione dell’esperimento di socialismo reale nei paesi dell’Est Europa era stata salutata dal politologo Francis Fukuyama come “la fine della storia”. Dopo aver prevalso su modelli di Stato e concezioni di democrazia avversarie, la liberal-democrazia si avviava a rappresentare l’unico orizzonte istituzionale rimasto. Gli “ultimi uomini”, forgiati da possibilità e costrizioni inerenti al modello liberal-democratico, sarebbero vissuti in una società che avrebbe sì soddisfatto i loro bisogni materiali, ma che allo stesso tempo sarebbe stata attraversata da due tensioni inevitabili. La prima sarebbe dipesa dal fatto di non poter dare uguale riconoscimento, cioè pari dignità, a persone formalmente considerate “eguali”: molte delle differenze all’interno del corpo sociale, come ricchezza e disposizioni naturali, sarebbero state non solo accettate in via di principio, ma valorizzate all’interno dell’economia di mercato. La seconda tensione dipendeva dal fatto di attribuire, formalmente, eguale riconoscimento a persone sostanzialmente diverse. Le differenze all’interno del corpo sociale non avrebbero infatti prodotto status diversi come nelle società tradizionali: in una società di pari, il cittadino liberal-democratico avrebbe goduto della stessa considerazione di qualsiasi altro cittadino all’interno della stessa società, quale che fosse il suo genere, gruppo etnico, credo religioso e via dicendo. Formalmente, non ci sarebbero stati né aristocratici, né pariah. Il livellamento della “gerarchia” sociale avrebbe lasciato il cittadino liberal-democratico senza desiderare accrescimento di status oltre alla sua condizione corrente. Gli “ultimi uomini” si sarebbero contentati di contemplare questo orizzonte di eguali senza pari dignità?

 

Negli ultimi dieci anni la storia pare riessersi messa in movimento. Quella che veniva chiamata “la fine della storia” oggi ci appare più una sosta sul ciglio della strada. Abbiamo infatti assistito a rivolgimenti politici e trasformazioni istituzionali che hanno messo in piena luce la crisi della liberal-democrazia. Quello che però sembra aver rimesso in moto gli ingranaggi della storia non è tanto la comparsa di una alternativa credibile e preferibile alla liberal-democrazia, quanto piuttosto la crisi di tenuta del modello liberale e democratico proprio davanti a quelle tensioni che Fukuyama aveva prefigurato trent’anni fa. Secondo il politologo Yascha Mounk, infatti, stiamo assistendo a una decomposizione della liberal-democrazia nelle sue due parti costitutive. La liberal-democrazia funzionava come un sistema politico che proteggeva diritti individuali, la parte “liberale” appunto, traducendo nel contempo punti di vista popolari in politiche pubbliche, cioè la componente “democratica”. Secondo Mounk, non ci stiamo allontanando da questo modello per abbracciare qualcosa di radicalmente diverso; piuttosto, stiamo accentuando l’una o l’altra componente creando dei sistemi politici monchi, fondamentalmente disfunzionali. Da una parte, abbiamo avuto “liberalismo senza democrazia”: le élite politiche, negli ultimi decenni si sono mostrate sempre più renitenti a seguire la volontà dell’elettorato nella formulazione delle politiche pubbliche. L’impalcatura di diritti liberali è stata preservata ed a volte accresciuta, ma si è aperta una distanza quasi invalicabile tra élite e masse popolari. Dall’altra parte, le “democrazie illiberali” hanno cercato di colmare questa spaccatura sancendo la preminenza della volontà popolare sui diritti di qualsivoglia minoranza: nuovi “uomini forti”, in Europa e negli Stati Uniti, hanno cavalcato le frustrazioni popolari promettendo la realizzazione di politiche pubbliche benvolute dalla maggioranza anche a discapito delle tutele liberali.

 

Secondo Mounk, ci avviamo verso un’era dove le “democrazie illiberali” saranno sempre più diffuse e accettate da ampie fasce della popolazione. Questo perché la liberal-democrazia non costituiva tanto un avanzamento dello “spirito” dell’uomo, quanto piuttosto un compromesso fondato su tre condizioni che avevano garantito la tenuta di questo particolare sistema politico dal dopoguerra ad oggi. Nei cinquant’anni che vanno dal 1935 al 1985, gli stati occidentali hanno potuto godere di una crescita economica sostenuta, i cui dividendi venivano distribuiti presso le famiglie attraverso il welfare state. Quando la dinamica del potere d’acquisto ha cominciato a stagnare, l’economia ha iniziato a configurarsi come un gioco a somma zero: perché un nuovo venuto, donna, minoranza etnica o immigrato che fosse, guadagnasse qualcosa in termini di benefici economici, le categorie tradizionali avrebbero dovuto subire una perdita netta di benessere. La scarsa crescita del prodotto interno lordo, all’interno di un sistema economico neoliberale, avrebbe potuto giusto sostenere avanzamenti per un gruppo ristretto di produttori e lavoratori altamente specializzati. Gli altri avrebbero visto diminuire la loro “fetta di torta” in proporzione ai guadagni e alle conquiste di gruppi percepiti come rivali. Questo ci porta al secondo aspetto, che secondo Mounk è la maggiore eterogeneità etnica dovuta alle aumentate migrazioni e all’attivismo sociale che ha permesso a minoranze tradizionalmente escluse di ottenere un posto al tavolo con gruppi che già avevano ottenuto rappresentanza. Questo ha però ingenerato, presso una sezione consistente dell’opinione pubblica, un senso di minaccia e risentimento verso i nuovi arrivati. Questo malcontento è stato prontamente capitalizzato da veri e propri imprenditori del risentimento, che hanno approfittato di una terza condizione sopraggiunta in tempi recenti: la diffusione capillare di mezzi di comunicazione di natura orizzontale ha permesso ad outsider politici di avere accesso al discorso pubblico e talvolta controllarlo. In questo modo, abbiamo potuto assistere ad una crescita di forze anti-sistema in quasi tutto l’Occidente, e in alcuni casi, all’ingresso nelle compagini governative o al controllo diretto degli stessi governi.

Queste tre condizioni, però, guardano solo ad un lato della storia. L’altro lato ci viene spiegato dal politologo Hanspeter Kriesi. Se è vero che queste trasformazioni della società hanno reso la liberal-democrazia vulnerabile agli attacchi di forze anti-sistema, è anche vero che è mancata una risposta da parte delle élite al potere in grado di riassorbire queste tensioni e trasformarle in nuovi input per decisioni democratiche. Le nuove domande, secondo Kriesi, sono collegate in larga parte ad una dimensione precisa, che viene generalmente chiamata dei “perdenti della globalizzazione”. L’integrazione dei mercati che è stata promossa da globalizzazione e dall’integrazione europea, in assenza di misure sociali ed economiche correttive, ha potuto danneggiare cittadini che erano stati in precedenza “difesi” all’interno di comunità nazionali “chiuse” e maggiormente autosufficienti. Questo ha creato una nuova “frattura” sociale tra coloro in grado di beneficiare dall’apertura dei mercati e coloro che invece non sono stati in grado di competere nel nuovo spazio economico o che ne sono stati direttamente danneggiati. La mancanza di una risposta politica adeguata è dovuta alla conformazione di forze politiche tradizionali: in particolare i requisiti attribuiti al concetto di “governo responsabile” hanno per anni spinto a non considerare o a frustrare domande inevase o a sottovalutare le ansie dell’elettorato. In termini pratici, il discorso politico ha più volte scandito il ritornello “non c’è nessuna alternativa”. In questo modo, si è creata una spaccatura tra i partiti “responsabili”, legati alle istituzioni, rispettosi dei trattati internazionali e dei vincoli esterni, e i partiti “ricettivi”, cioè partiti che sono capaci di dare una risposta alle domande di un elettorato che si percepisce come escluso, anche se queste risposte si presentano come parziali o addirittura illiberali.

Tuttavia, secondo Kriesi, questo fenomeno non dà origine ad una “crisi della liberal-democrazia”, ma a qualcosa di diverso. Quando guardiamo agli orientamenti popolari verso la liberal-democrazia occorre infatti distinguere tra due diverse inclinazioni. Da una parte, si ha l’attaccamento ai princìpi della liberal-democrazia, ossia l’adesione alla costellazione di valori che regge il sistema politico. Secondo Kriesi, i dati empirici dello European Social Survey ci dicono che il sostegno popolare per l’ideale democratico è ancora vivo e non dà segni di cedimento nelle maggiori democrazie europee. Quello che invece mostra un trend differente è la soddisfazione democratica: le persone sono sempre meno soddisfatte dagli esiti del processo democratico, in termini di politiche pubbliche. Si è aperto, insomma, uno iato tra ideali e realizzazioni concrete della democrazia.

Per quanto le diagnosi di Kriesi e Mounk siano in disaccordo, entrambe sembrano seguire la morfologia essenziale del problema evidenziato da Fukuyama più di trent’anni fa. Negli ultimi anni, le élite liberali si sono dimostrate sempre meno capaci di aumentare la resilienza sociale davanti alle trasformazioni epocali dovute a processi come quelli della globalizzazione e dell’integrazione europea. Questa carenza ha accentuato una delle tensioni insite alla liberal-democrazia: l’incapacità di fornire pari dignità a cittadini considerati formalmente eguali. I dividendi della globalizzazione sono stati accentrati sempre più nelle mani di pochi, lasciando i gruppi tradizionalmente rappresentati in aperta competizione con i “nuovi” soggetti che in passato erano stati esclusi. Imprenditori anti-sistema hanno orientato il risentimento degli esclusi, veri o presunti, verso il secondo polo descritto da Fukuyama: l’impossibilità, in una cornice liberale, di rispondere alla domanda di identità e di status. L’attenzione così si è spostata dal riconoscimento dei bisogni materiali e della pari dignità dei cittadini verso il riconoscimento di nuove o vecchie identità: la politica ha così iniziato a creare nuovi perimetri di cittadinanza basati sull’esclusione di gruppi sociali minoritari o tradizionalmente svantaggiati. In questo modo, la “democrazia illiberale” ha fornito una risposta a buon mercato – cioè illusoria — a domande molto più complesse.

Ma quale che sia la diagnosi sullo stato della liberal-democrazia, è fuori dubbio che la sfida posta dalle forze illiberali debba essere presa seriamente. Se la liberal-democrazia non è più l’unico orizzonte possibile, dovrà certamente dimostrare di essere quello più desiderabile, colmando il divario che si è aperto tra bisogni collettivi ed effettive realizzazioni di politica pubblica, e garantendo, nel contempo, una maggiore apertura dei processi decisionali ai cittadini.

 

In collaborazione con

L’articolo si inserisce nel contesto del progetto SOLID finanziato dal Consiglio Europeo della Ricerca con il programma H2020, grant n. 810356 

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