Rice University

Pubblichiamo qui un estratto del libro di Timothy Morton, Come un’ombra dal futuro. Per un nuovo pensiero ecologico, Aboca 2019. Si ringrazia l’autore e l’editore per la gentile concessione.

L’ambientalismo è spesso apocalittico. Mette in guardia dalla fine del mondo e la allontana. Il titolo Primavera silenziosa di Rachel Carson dice tutto. Ma le cose non stanno così: la fine del mondo è già iniziata. Abbiamo spruzzato il DDT. Abbiamo fatto esplodere le bombe nucleari. Abbiamo cambiato il clima. Questo è ciò che appare dopo la fine del mondo. Oggi non è la fine della storia. Viviamo agli albori della storia. Il pensiero ecologico pensa in avanti. Sa che siamo appena all’inizio, come qualcuno che si sveglia da un sogno.
Siamo responsabili del riscaldamento globale. Formalmente responsabili, sia che l’abbiamo o non l’abbiamo causato, sia che possiamo o non possiamo provare di averlo causato. Siamo responsabili del riscaldamento globale semplicemente perché siamo senzienti. Non serve alcun argomento più elaborato. Se credi che serva un argomento più elaborato, considera le seguenti cose.

Se vedi un bambino che sta per essere travolto da un camion, affermi forse: “Non sono direttamente responsabile della sua morte, quindi non l’aiuterò”? Se la tua casa brucia, dici: “Beh, non ho appiccato io il fuoco, quindi non è mia responsabilità spegnerlo”? La grande differenza è che, contrariamente al bambino e alla casa, non riesci a vedere il clima. Il clima non è il tempo meteorologico. Puoi vedere il tempo meteorologico ma non il clima, allo stesso modo in cui non riesci a vedere la quantità di moto, ma puoi vedere la velocità. Il clima è una derivata del tempo meteorologico. Computer molto potenti, che usano terabyte di RAM, a stento riescono a elaborare modelli del clima.

Non si può proprio mostrare il clima, ma esso esiste. Non importa se da qualche parte è nevicato, così come non importa se un camion che sta per investirti rallenti o acceleri. Se ha abbastanza quantità di moto per ucciderti, lo farà, a meno che tu non riesca a spostarti. Se vedi un bambino di fronte a quel camion in movimento, sei obbligato a salvarlo per la semplice ragione che riesci a vederlo. In altre parole, semplicemente perché siamo senzienti – abbassiamo l’asticella per essere sicuri che perfino le lumache e gli esseri umani più lumacosi siano pure responsabili – siamo obbligati a occuparci del riscaldamento globale. Non è richiesta alcuna prova che siamo stati noi a causarlo: cercare prove assolute inibisce la nostra capacità di risposta.

È difficile assumersi la responsabilità di ciò che non si può vedere. Ma non è più difficile di assumersi la responsabilità, ad esempio, di non uccidere: non bisogna venir fuori con un motivo; semplicemente lo si fa e dopo si capisce il perché. Ecco perché la si chiama decisione etica. Non deve essere verificata o giustificata. Lo si fa e basta. Questo non significa che la nostra azione sia inconsapevole. Non sto in alcun modo suggerendo di fare semplicemente quello che sentiamo sia giusto. Significa che si può agire spontaneamente e consciamente. Discuterò più avanti di questo apparente paradosso.

La negazione del riscaldamento globale dipende da – e contribuisce a – un’idea di Natura non così diversa da un certo atteggiamento verso il bambino sulla strada o la casa in fiamme: “Ormai è finita, di fatto non mi riguarda”. Una parte dell’assumersi la responsabilità diretta del riscaldamento globale sarà abbandonare l’idea di Natura, una barriera ideologica che ci impedisce di comprendere come tutto è interconnesso. I negazionisti del riscaldamento globale sono come chi punta la pistola alla testa di qualcuno e dice: “Dammi una buona ragione per non sparare a questo qua”. Gli dai una buona ragione (“È giusto, senti che è bene, c’è una rete simbiotica in cui siamo immersi e tu la stai danneggiando, stai travolgendo un equilibrio naturale…”) o, se sei abbastanza forte, gli togli la pistola?

Da un certo punto di vista, tutte le ragioni al mondo non sono ragioni sufficienti. Questo è il motivo per cui Søren Kierkegaard ritiene che la posizione “etica” sia un passo avanti rispetto a quella “estetica”: in quella estetica fai le cose perché ti sembrano carine o paiono carine. In quella etica, la carineria – o addirittura la validità razionale, che forse è anche un tipo di ordine estetico – non conta. In modo assurdo, come vedremo, gli argomenti ambientalisti basati sul consequenzialismo (ad esempio, “prendersi cura della Terra ti fa sentire meglio”) inibiscono di fatto l’azione.

Una delle implicazioni è che è possibile essere pienamente consapevoli e totalmente spontanei nello stesso momento e per le stesse ragioni. Non sono d’accordo con Gregory Bateson, che ritiene che le uniche decisioni valide siano quelle inconsce, un’idea che suona sospetta, un po’ come “L’unica donna buona è quella morta”. Questo disaccordo influenza la nostra interpretazione di un momento centrale nella poesia di Coleridge La ballata del vecchio marinaio, che abbiamo esplorato nel capitolo precedente. Ciò che il marinaio fa con i serpenti marini non è solo un’accensione neuronica casuale, e non è nemmeno una cosa così improbabile, se abbiamo gli occhi per vederla. Salutare un estraneo è una forma di “benedizione inconsapevole” (4.285-287): non lo conosciamo quando lo salutiamo. “Inconsapevole” non deve significare “in modo automatico”: se lo fosse, si rischierebbe un regresso infinito, per chi o per che cosa è stato installato il “software della benedizione” che ha permesso a questa azione di verificarsi in modo automatico?

Il pensiero ecologico si estende sia nel tempo che nello spazio, ma pensare in grande non è in contraddizione con l’essere intimi. Una maglia che ci impedisca di immaginare l’estraneo strano non sarebbe una maglia, e viceversa. L’ecologia è relazionarsi non con la Natura, ma con alieni e fantasmi. L’intimità si presenta a noi con il problema dello spazio interiore. La nostra intimità con gli altri esseri è piena di ambiguità e oscurità. Gli estranei strani fluttuano e dissimulano. Se eliminiamo l’ambiguità e l’oscurità, non otteniamo altro che aggressione.

Il pensiero ecologico è scuro, ma non suicida. Il meme “nelle terre selvagge” qui non gioca alcun ruolo. Una volta che scopriamo il vuoto nel nostro profondo, non possiamo restare indifferenti all’estraneo strano. La scoperta stessa è una forma di attenzione. È molto più propositivo svegliarsi nel buio del pensiero ecologico piuttosto che continuare a sognare la vita come distrutta per sempre. L’eco-apocalisse esiste sempre per qualcuno. Presuppone un’audience. Che tipo di fantasie sadiche sullo stile “te lo sei cercato” vengono stimolate? Fino a che punto lascia tutto nel modo in cui è sempre stato, il giorno prima di dopodomani? Sembra che per molti sia più semplice immaginare la fine del mondo che immaginare la fine del capitalismo. Più si pensa il pensiero ecologico, più si capisce che la mentalità “lascia che sia” (nessuna “interferenza” umana con l’ambiente, nessuna cura “antropocentrica” degli “animali”. e così via) è solo l’altra faccia della medaglia dell’ideologia del laissez-faire. Paiono così diversi, eppure sono davvero la stessa cosa vista da lati differenti, come soggetti a parallasse. La crisi bancaria globale del 2008 ci dovrebbe sensibilizzare (come ha fatto perfino con il presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan) in merito alla verità secondo cui l’economia “lascia che sia” è una fantasia ideologica. La deregolamentazione finanziaria ha fatto sembrare la borsa valori “naturale”, come una nuvola. Quando collassò, smise di essere una “cosa da qualche parte laggiù”; un processo reificato che semplicemente accade. L’America e il Regno Unito sono usciti dall’epoca delle “cose che succedono” (per usare le parole che il segretario della Difesa degli Stati Uniti, Donald Rumsfeld, usò per descrivere il saccheggio e l’anarchia nelle strade di Baghdad dopo l’invasione dell’Iraq).

L’orizzonte ultimo dell’ecologia va oltre il capitalismo, anche se il capitalismo attraverserà senz’altro una fase verde. Nella sua compulsiva ricerca del prossimo picco sul mercato azionario, il capitalismo creerà una bolla verde. Ma il capitalismo non è il capolinea di quattro miliardi e mezzo di anni di riproduzione. Il capitalismo segna solo l’inizio della concezione del pensiero ecologico al di là del nostro orticello personale. Le versioni dell’ecologia adatte a servire gli interessi delle multinazionali sono distorsioni temporanee. Il capitalismo non fa che mostrare la verità della cooperazione. Qualsiasi comunità erediteremo, dobbiamo scegliere la cooperazione. Il sistema industriale fece sì che i lavoratori scegliessero di cooperare gli uni con gli altri mettendoli insieme, trasformandoli in parti sostituibili di macchine sostituibili. Viviamo in un’enorme rete di strutture meccaniche intrecciate che diventano sempre più articolate e sempre più globali. Compaiono gabbie ancora più complesse, in cui ci possiamo riconoscere vi­cendevolmente come esseri coscienti capaci di scegliere. La prima cosa di cui un essere cosciente si renderà conto è di essere stato dormiente, in una gabbia. Dobbiamo abbandonare l’ecologia romantica di comunità. Immaginare una società ecologica come comunità vuol dire inibire una cooperazione futura, poiché il linguaggio della “comunità” invoca fantasie relative a un momento storico prima che l’idea del socialismo facesse la sua comparsa.

Pensare la cooperazione in modo ampio e profondo è un dovere del pensiero ecologico.

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