Felicità! auguravamo un tempo a chi starnutiva, oggi sostituito da un più domestico Salute! Felicità è una delle parole più inseguite in Internet, una delle più manipolate, sempre più magnificamente ambigua, definizione che tanto rassicura, l’importante comunque è darsene l’aria. Ma di quale felicità parliamo? Quella di là da venire, la felicità degli altri presumibilmente, dato che, a ben guardare, la nostra vita è percorsa da un radicato sentimento di tristezza. Da nascondere quanto più possibile. Al cuore del sintomo, il perdurante stato di incertezza e instabilità che questo tempo porta con sé. I consultori e in generale i centri di assistenza psicologica e psichiatrica sono frequentati – e questo da qualche decennio, ormai – non soltanto da chi ha sofferenze di natura psichica, ma da chi non ce la fa a sentirsi felice. Da chi si sente solo, sempre più solo, in una società che erige altari al contatto e alla comunicazione – attraverso sistemi sempre più sofisticati di iperconnessione, grazie ai quali puoi avere quel che vuoi con un click, la spesa a casa a mezzanotte, il sushi alle due, un incontro occasionale con uno sconosciuto che il Gps ha appena rilevato nel tuo quartiere, a dodici metri da te – e intanto muore di frammentazione e solitudine. Restare leggeri, vivaci, eventualmente fingere; l’importante, in questi casi, è non forzare mai il proprio contesto di infelicità, non dare a vedere le macchie d’ombra. Diversamente, il rischio di venirne isolati è alto.
Pure, se solo riuscissimo a riaprire e dispiegare quel telo di compassione entro cui tutti potremmo trovare asilo all’occorrenza… Potessimo riavere quello sguardo capace di cogliere, sapessimo riaffidarci l’uno all’altro: in fondo lo sappiamo che tutti perdiamo, tutti falliamo.
Ho in mente le immagini di Dorando Pietri che nel 1908, mentre corre la maratona dei giochi olimpici di Londra, a un soffio dal punto d’arrivo barcolla più volte, è stremato, ma i giudici di gara vanno a soccorrerlo, gli offrono braccia come fossero gambe e lo portano al traguardo. Dorando perderà, squalificato perché aiutato, ma quanta umanità in quegli uomini non performanti?
Dorando Pietri, 1908
Ho in mente la storia del professore veneziano ritrovato mummificato in casa, sette anni dopo la morte. L’ultimo suo giorno, dopo aver prelevato un po’ di soldi (poi lasciati sul tavolo, con il promemoria del bancomat), è tornato a casa e si è addormentato. Sono passati sette anni prima che qualcuno finalmente entrasse e lo vedesse lì, nel suo letto, preservato dai venti lagunari e dall’aria salmastra, come era accaduto al marinaio tedesco che aveva solcato tutti i mari, per poi morire nella sua barca al largo delle coste di Guam, nell’Oceano Pacifico. In sette anni, nessuno si è accorto della sua assenza, nessuno è mai andato a bussare alla sua porta. Solo Venezia e la laguna lo hanno stretto in un ultimo abbraccio, trattenendone la persistenza terrena prima che tornasse polvere, come è stato prescritto. Tutto si sa la morte dissigilla: il professore è forse morto come è vissuto, nella ritrazione. Il primo giorno di scuola del suo ultimo anno da insegnante era entrato in aula e scusandosi con gli allievi aveva detto “Faccio fatica a parlare, non ho parlato con nessuno per tutta l’estate”. Forse aveva ombre che aveva dovuto nascondere in casa, assieme al suo corpo. Prima di venirne giudicato (o forse in conseguenza di un giudizio non espresso che tuttavia gli aleggiava intorno) si era ritirato nel suo esilio. Vorrei definire ‘colpa dello stato d’animo’, questo male assai insidioso come la colpa originaria. Una colpa di cui ciascuno di noi potrebbe macchiarsi.
Ho in mente un paese abbandonato, piccolo e scabro, in cui le cose sembrano capovolgersi di continuo, dal momento che l’ordine e la funzione non sono più dati. Le case di questo piccolo paese scabro sono tutte significativamente rotte: a qualcuna manca il tetto, a quasi tutte mancano le finestre, nessuna è senza crepe e anzi le facciate sono ben orlate di cornici d’umido, infestate al punto giusto, sterpi di qua e di là, sterpi tra i sassi, fraterni sterpi, fraterni sassi. Queste case, non si sa come, si reggono e si sostengono fra loro, ciascuna trattenendo il suo segmento di tempo, quel lontano furore di eternità con cui erano state costruite. Non credo ci sia niente di sbagliato nel complicare la focalizzazione e vederci una cooperazione, un mutuo aiuto che compensa con la vicinanza l’inesorabilità del tempo che passa: tutte hanno perso pezzi, ciascuna ha dovuto abdicare alla sua funzione, case fallite ma nessuna è caduta.