La “fabbrica della modernità” è il processo che trasforma la società tra Ottocento e Novecento e in cui la “Grande guerra” costituisce un passaggio ineludibile.
Si entra in guerra con una struttura industriale ancora “piccola”, “locale”, a “scala bassa”, talora artigianale. Se ne esce con la grande impresa in cui si è “anonimi”, “disumanizzati”. Come in trincea. Una massa stracolma di individui che condividono sentimenti, che si trovano ad affrontare inizialmente da soli e che poi lentamente si riconoscono nella loro condizione e allora si sentono “massa”. Un laboratorio in cui conta come si vive, come si muore, come si mangia, come si dorme, come si attende al proprio compito. Dove sono essenziali alcuni principi: la gerarchia, l’ordine, la disciplina. “Essere tanti” e “sentirsi uno”.
Eppure, questa “fabbrica della modernità” si innesta e prospera sulle rovine di un mondo che essa stessa contribuisce a distruggere, idealmente e materialmente: quell’industria che sembrava destinata a generare solo benessere e progresso si ritrova improvvisamente coinvolta in una produzione di morte, costretta ad adattarsi alle esigenze di un warfare per certi aspetti del tutto nuovo, sia in termini di temporalità che di spazialità, come la battaglia di Ypres e i bombardamenti su Londra rendono evidente al mondo intero. Biciclette, automobili, aerei, ritrovati chimici, elettricità, mezzi di comunicazione all’avanguardia, tutto ciò che sembrava prestarsi al miglioramento dell’umanità intesa nella sua dimensione pubblica e privata, si converte – spesso con sorprendente spirito di adattamento – in strumento di distruzione di quella stessa umanità, con il contributo non secondario della scienza, anch’essa a servizio della guerra. Ma, simbolo di tutte le contraddizioni di una guerra modernizzatrice e distruttrice insieme, mentre produce strumenti di morte l’industria rinasce a nuova vita. L’esperienza della mobilitazione industriale, sperimentando per la prima volta un intreccio sconosciuto tra industria e stato, tra luoghi della produzione e luoghi di potere, alla fine della guerra restituisce un apparato produttivo del tutto nuovo.
A guidare la nuova fabbrica della modernità, pronta a riversare di nuovo ad usi civili molte di quelle innovazioni che la guerra ha accelerato, c’è un nuovo imprenditore, che è insieme capitalista, produttore, organizzatore, politico. Un uomo dai mille volti, ad ognuno dei quali corrispondono altrettanti interlocutori: dalle rappresentanze operaie allo stato, dai mercati internazionali ad una struttura interna di fabbrica che a sua volta si diversifica in una molteplicità di figure e di specializzazioni (dagli ingegneri agli architetti ai responsabili degli uffici studi).
Un’industria all’interno della quale, non a caso, a partire dagli anni Trenta troverà nuova valorizzazione anche un settore, come quello della comunicazione, che ha conosciuto anch’esso nella guerra il proprio laboratorio della modernità.
Eleonora Belloni
Ricercatrice del progetto La Grande Trasformazione 1914-1918
Consigli di lettura
Per approfondire i contenuti dell’articolo, leggi l’ebook L’esercito delle officine di Luigi Einaudi, pubblicato per Utopie, collana digitale di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.
Risultato e allo stesso tempo mezzo di una guerra “totale” che portava con sé la necessità di una condivisione del
sacrificio da cui nessuno poteva ritenersi escluso, la mobilitazione delle forze produttive diveniva parte integrante della più generale mobilitazione nazionale. Ciò fu tanto più vero in Italia, in un paese a detta dei più impreparato anche industrialmente alla guerra, a causa di un percorso di industrializzazione…
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Approfondimenti
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La fabbrica della modernità è il processo che trasforma la società tra Ottocento e Novecento e in cui la “Grande guerra” costituisce un passaggio ineludibile. Si entra in guerra con una struttura industriale ancora “piccola”, “locale”, a “scala bassa”, talora artigianale. Se ne esce con la grande impresa in cui si è “anonimi”, “disumanizzati”. Come in trincea. Una massa stracolma di individui che condividono sentimenti…
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La fabbrica della modernità è il processo che trasforma la società tra Ottocento e Novecento e in cui la “Grande guerra” costituisce un passaggio ineludibile.
Si entra in guerra con una struttura industriale ancora “piccola”, “locale”, a“scala bassa”, talora artigianale. Se ne esce con la grande impresa in cui si è “anonimi”, “disumanizzati”. Come in trincea.
Una massa stracolma di individui che condividono sentimenti, che si trovano ad affrontare inizialmente da soli e che poi lentamente si riconoscono nella loro condizione e allora si sentono “massa”. Un laboratorio in cui conta come si vive, come si muore, come si mangia, come si dorme, come si attende al proprio compito. Dove sono essenziali alcuni principi: la gerarchia, l’ordine, la disciplina. “Essere tanti” e “sentirsi uno”.
Eppure, questa “fabbrica della modernità” si innesta e prospera sulle rovine di un mondo che essa stessa contribuisce a distruggere, idealmente e materialmente. All’industria celebrata dalle Esposizioni internazionali a cavallo tra Otto e Novecento, accompagnatrice di una Belle époque trionfante di pace e di fiducia nel futuro, la guerra chiede di farsi complice nella costruzione di una perversa e diabolica macchina della morte. L’economia avviata sulla strada di una globalizzazione internazionale torna a frammentarsi in tante economie nazionali che si chiudono in se stesse fino a estremi esperimenti di autarchia.
Quell’industria che sembrava destinata a generare solo benessere e progresso si ritrova improvvisamente coinvolta in una produzione di morte, costretta ad adattarsi alle esigenze di un warfare per certi aspetti del tutto nuovo, sia in termini di temporalità che di spazialità, come la battaglia di Ypres e i bombardamenti su Londra rendono evidente al mondo intero. Biciclette, automobili, aerei, ritrovati chimici, elettricità, mezzi di comunicazione all’avanguardia, tutto ciò che sembrava prestarsi al miglioramento dell’umanità intesa nella sua dimensione pubblica e privata, si converte – spesso con sorprendente spirito di adattamento – in strumento di distruzione di quella stessa umanità, con il contributo non secondario della scienza anch’essa a servizio della guerra.
Ma, simbolo di tutte le contraddizioni di una guerra modernizzatrice e distruttrice insieme, mentre produce strumenti di morte l’industria rinasce a nuova vita. L’esperienza della mobilitazione industriale, sperimentando per la prima volta un intreccio sconosciuto tra industria e Stato, tra luoghi della produzione e luoghi di potere, restituisce alla fine della guerra un apparato produttivo del tutto nuovo. Un’industria che dà luogo della produzione (industria-fabbrica) si è fatta appunto apparato (industria-modo si produzione), accresciuto dimensionalmente ma anche trasformato qualitativamente. Una lezione che non sarebbe andata perduta nell’inquieto dopoguerra economico: tra smobilitazione e resistenze, l’imprenditore del dopoguerra accetterà con fatica di tornare a chiudersi all’interno della sua fabbrica, preoccupandosi esclusivamente di produzione e profitto, e aspirerà invece a svolgere un ruolo ben più attivo all’interno non solo del suo ristretto mondo ma di quella società che rivendica di aver contribuito a difendere.
A guidare la nuova fabbrica della modernità, pronta a riversare di nuovo ad usi civili molte di quelle innovazioni che la guerra ha accelerato, c’è un nuovo imprenditore, che è insieme capitalista, produttore, organizzatore, politico. Un uomo dai mille volti, ad ognuno dei quali corrispondono altrettanti interlocutori: dalle rappresentanze operaie allo Stato, dai mercati internazionali ad una struttura interna di fabbrica che a sua volta di diversifica in una molteplicità di figure e di specializzazioni (dagli ingegneri agli architetti ai responsabili degli uffici studi).
Un’industria all’interno della quale, non a caso, a partire dagli anni Trenta troverà nuova valorizzazione anche un settore, come quello della comunicazione, che ha conosciuto anch’esso nella guerra il proprio laboratorio della modernità.
Photogallery
In un percorso di diciotto immagini, tre modi di vivere e interpretare la Grande guerra sulle pagine dell’”Avanti”, dell’”Asino” e della “Tradotta”. I protagonisti sono i caricaturisti di punta del quotidiano socialista e del più celebre giornale satirico pubblicato tra Otto e Novecento: Giuseppe Scalarini (1873-1948) e Gabriele Galantara (1865-1937), nonché l’illustratore Antonio Rubino (1880-1964), già co-fondatore del “Corriere dei Piccoli” e tra i collaboratori più apprezzati della “Tradotta”.
Tre modi diversi di fare propaganda pro o contro la guerra, accomunati, a tratti, dalla grande modernità ed efficacia del messaggio veicolato, indicativa di un nuovo modo di leggere un contesto sociale in rapida trasformazione. Dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, tre brevi percorsi tra 1914 e 1919 che consentono di visualizzare la guerra con le lenti della satira e della propaganda.