Università di Pisa

L’emergenza sanitaria ha esacerbato quei processi di trasformazione del mercato del lavoro già in atto, innescati da una parte dallo sviluppo tecnologico e dall’altra da cambiamenti istitutizionali che negli ultimi decenni hanno gradualmente smantellato qualsiasi sistema di tutela dei lavoratori.

Stiamo infatti assistendo ormai da anni ad una nuova tendenza che caratterizza il mercato del lavoro, ovvero l’emergere di nuovi rapporti lavorativi basati sulla riduzione della sicurezza del lavoro e sul passaggio da sistemi sindacali di determinazione dei salari a salari determinati dalle forze di mercato.


Su questi temi, esplora il ciclo di appuntamenti Mind the Gap di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Secondo il rapporto “World Employment and Social Outlook – Trends 2019” dell’International Labour Organization (ILO), la cattiva qualità del posto di lavoro è il maggior problema con il quale si confrontano i mercati mondiali del lavoro, costringendo milioni di persone ad accettare di lavorare in cattive condizioni. La maggioranza dei 3,3 miliardi di lavoratori occupati nel 2018 lamentano l’assenza di sicurezza economica, di benessere materiale e di parità di possibilità. E se da una parte abbiamo visto incredibili progressi nella riduzione la disoccupazione a livello planetario, dall’altra questo trend è andato di pari passo con un peggioramento progressivo della qualità del lavoro.

In questo caso, vorrei far notare che infatti piena occupazione non è sinonimo di sviluppo sostenibile se non accompagnata da progressi nel raggiungimento dell’uguaglianza, nel superamento delle disparità sociali e nell’ottenimento di un lavoro che sia qualità per tutti gli individui.

Sempre secondo l’Ilo, nel 2018 circa 1,1 miliardi di persone lavorano in maniera autonoma – spesso in attività di sussistenza a causa dell’assenza di opportunità lavorative nel settore formale o della mancanza di un sistema di protezione sociale. Avere un lavoro, infatti, non garantisce sempre una vita decente, e la prova è data dalle circa 700 milioni di persone che vivono in una situazione di estrema povertà o di povertà moderata, benché abbiano un lavoro. A questi dati, si affiancano quelli di un altro problema su scala globale, che è il lavoro nero (o informale) che interessa ben 2 miliardi di lavoratori, cioè il 61% della manodopera mondiale.

Insomma, a livello mondiale la disoccupazione è in calo, ma le condizioni dei lavoratori non sono migliorate.

È infatti dal 2008 che registriamo una crescita costante del fenomeno dei cosiddetti working poor (lavoratori poveri) in quasi tutti i paesi europei, tanto che nel 2018 il 9,5% dei lavoratori era a rischio di povertà. L’Europa ha messo in campo da tempo vari strumenti per arginare il problema e, dal punto di vista finanziario, è soprattutto il Fondo sociale europeo a sostenere misure per migliorare la qualità dell’occupazione. Poiché una parte del problema è legato al basso livello di formazione, i fondi strutturali hanno la potenzialità di sostenere gli Stati membri nel migliorare i propri sistemi di istruzione e formazione, specie nel corso della vita lavorativa. Tuttavia ulteriori risorse sono necessarie, soprattutto sul piano normativo.

Nel 2017, quasi il 10% della popolazione attiva dell’Ue è stata considerata a rischio di povertà, per un totale di circa 20,5 milioni di lavoratori. Oltre a portare all’esclusione sociale, alla disparità e alla disuguaglianza, la povertà sul lavoro mette a repentaglio una caratteristica essenziale della cittadinanza Ue, ossia la prospettiva di condurre una vita dignitosa.

Mentre le misure introdotte dai governi di quasi tutti i Paesi europei hanno risposto in maniera sufficiente, almeno sulla carta, ai bisogni più urgenti dei lavoratori dipendenti e di alcune tipologie di lavoratori autonomi, il lavoro flessibile, saltuario e occasionale si è trovato privo di protezioni.

A meno che i decisori politici non raccolgano la sfida, alcuni nuovi modelli commerciali, in particolare quelli favoriti dalle nuove tecnologie, minacciano di compromettere i risultati ottenuti per il mercato del lavoro in termini di miglioramento della legalità e della sicurezza del lavoro, della protezione sociale e delle norme sul lavoro e dei diritti dei lavoratori. L’affermazione sui mercati globali delle grandi multinazionali del tech e dei servizi di distribuzione ha imposto l’adozione di modelli di mercato in cui domina la logica di una deregolamentazione costante del lavoro, assoggettato non tanto alla tecnologia, ma a pratiche di business poco sostenibili da un punto di vista economico e sociale.

Si pensi quindi alla dimensione epocale che assume il problema delle competenze professionali di fronte all’affermarsi di quello che viene chiamato “il capitalismo delle piattaforme”, che ha creato una massa crescente di lavoratori autonomi delle professioni tecnico-intellettuali che trovano sempre maggiore difficoltà a raggiungere redditi in grado di garantire loro un tenore di vita sostenibile.

Passando al caso dell’Italia, l’esempio più significativo è quello dei riders, un esempio illuminante per capire la dinamica delle piattaforme e per vedere all’opera una manifestazione specifica della gig economy. Ma è un esempio che dimostra ancora una volta come non siamo capaci di liberarci dall’idea che la forma del lavoro subordinato appare come l’unica tutela seria del lavoro autonomo.

I riders sono solo la punta dell’iceberg dei cosiddetti gig workers. Oltre a chi pedala in bicicletta, c’è chi fa babysitteraggio, chi effettua pulizie per camere in affitto, chi svolge lavoro informatico occasionale. Complessivamente si stima che in Italia il pianeta gig economy occupi fra 700 mila e un milione di persone, prevalentemente giovani. Eppure di loro non c’è quasi traccia nell’anagrafe dell’Inps, segno che non godono né di versamenti pensionistici, né di copertura assicurativa.

Da un’indagine condotta dall’Inps nel 2018 sulle 50 più grandi imprese di servizi on line in Italia, si apprende che esse registravano poco più di 2.700 lavoratori. Tutti gli altri sono considerati lavoratori autonomi, a cui non è pagato nient’altro che il servizio reso secondo un tariffario stabilito dalla piattaforma. Questo significa: niente ferie, niente indennità di malattia, niente assicurazione contro gli infortuni, niente versamenti pensionistici.

Nelle professioni esercitate dai freelance questo impatta soprattutto le professioni tecnico-intellettuali, il mondo vasto della cultura e degli eventi, della comunicazione, cioè quelle attività che si concentrano maggiormente nei grandi centri metropolitani. E senza sorpresa, sono proprio queste le professioni che più hanno sofferto durante l’emergenza sanitaria.

Vorrei quindi sottolineare come la struttura occupazionale si stia polarizzando soprattutto rispetto ai rapporti di lavoro tra coloro che hanno accesso a contratti lavorativi di tipo standard e coloro che sono impiegati tramite contratti atipici. Questo dualismo è collegato a una diffusione sempre più pervasiva e generalizzata di lavoro precario in tutti i settori dell’economia, e vi è una chiara mancanza di risposte adeguate da parte del policy maker nel frenare, o almeno attenuare, questo processo.

Le conseguenze saranno molti gravi se non rientriamo nell’ottica che la flessibilità lavorativa richiesta da un mercato del lavoro in continua evoluzione a causa del progresso tecnologico non debba essere sinonimo di precarietà, povertà ed esclusione dai sistemi di protezione sociale. La domanda che quindi ci poniamo è: in che modo la regolazione, il diritto, possono fermare tutto ciò o almeno attutire gli effetti di questo declino?

Condividi
La Fondazione ti consiglia
pagina 110408\