La gestione dei flussi migratori che coinvolgono l’Italia è diventata negli ultimi 20 anni terreno di scontro e di faticosa mediazione tanto a livello interno che in sede europea. Alternando momenti di chiusura ad altri di gestione e collaborazione con gli altri Stati membri dell’Unione europea e terzi, il sistema che regola l’accoglienza dei migranti che arrivano in Italia è lo specchio di un argomento che non ha ancora trovato un livello di gestione coerente e stabile.

Ogni governo che ha guidato il Paese negli ultimi decenni ha lasciato la sua impronta, spesso ignorando l’operato dei predecessori. La faziosità politica ha spesso prevalso su logica e coerenza, dando vita a un sistema complesso e spesso contraddittorio.

Al momento, il sistema di accoglienza in Italia è strutturato su due livelli: prima accoglienza – con hotspot e centri di prima accoglienza – e seconda accoglienza. La seconda accoglienza è suddivisa tra il SAI (Sistema di Accoglienza e Integrazione) – successore del SIPROIMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) creato dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini – e i CAS, Centri di Accoglienza Straordinaria.

Questo nuovo sistema ha lentamente sostituito i diversi CPSA (Centri di Primo Soccorso e Accoglienza), CDA (Centri di Accoglienza) e CARA (Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo). Un cambiamento che per un lungo periodo ha visto sovrapporsi entrambi i sistemi di accoglienza.

A transazione completata, secondo i dati forniti dal ministero dell’Interno, gli hotspot operativi sul territorio nazionale sono i quattro di Lampedusa, Pozzallo, Messina e Taranto. Si tratta di strutture con poche centinaia di posti organizzati per ospitare i migranti per i pochi giorni necessari a smistarli nei nove centri di accoglienza distribuiti tra Sicilia, Puglia, Veneto, Friuli Venezia Giulia e Calabria.

In questi centri i migranti si suddividono tra coloro che fanno domanda di asilo e chi non ha i requisiti per produrla. Chi fa parte di questa seconda categoria viene inviato in un CPR (Centro di Permanenza e Rimpatrio), nuova sigla del CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione). Nei nove centri di Bari, Brindisi, Caltanissetta, Gradisca d’Isonzo, Macomer, Palazzo San Gervasio, Torino, Roma e Trapani i migranti possono essere trattenuti un massimo di 90 giorni (erano 180 quando Salvini era ministro dell’Interno). Secondo la relazione della Camera, nel 2021 sono transitati in questi centri 5174 persone.

I richiedenti asilo passano invece nel circuito della seconda accoglienza, ossia il SAI (Sistema di accoglienza e integrazione) con cui l’ex ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha sostituito il SIPROIMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) – che a sua volta aveva sostituito lo SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), operativo tra 2002 e 2018.

Il SAI è coordinato dal ministero dell’Interno in collaborazione con l’Associazione nazionale dei comuni italiani. Sono infatti i singoli enti locali che scelgono di aderire al SAI facendo domanda di finanziamento grazia a un bando pubblico sempre aperto. A domanda accettata, l’ente locale riceve un finanziamento triennale per attivare un progetto di accoglienza sul proprio territorio. Successivamente, l’ente pubblico impiega le risorse per coinvolgere un ente gestore, che deve essere un ente non profit.

Nel giugno 2022, 719 enti locali hanno progetti SAI attivi, il 10% in più rispetto al 2021. Si tratta di 847 progetti, in aumento rispetto ai 760 del 2021. Questo si traduce in 39mila posti disponibili nel sistema SAI, 9mila in più rispetto all’anno precedente.

Rispetto al SIPROIMI, il SAI cerca di recuperare l’ottica dell’integrazione tanto dei richiedenti asilo che dei titolari di protezione. Secondo l’ultimo Rapporto annuale SIPROIMI-SAI, delle oltre 37mila persone accolte nel sistema nel 2020, i richiedenti asilo sono il 25,7%, contro il 58% del 2015 e il 47% del 2016. Il 62,5% dei beneficiari sono invece titolari di una forma di protezione: 27% di rifugiati, 18,7% di protezione sussidiaria, 9,3% di permessi per casi speciali e 5,4% di protezione umanitaria, in netto calo vista l’abolizione di questo ultimo status a fine 2018 per volontà dell’allora ministro Salvini. I minori stranieri non accompagnati rappresentano invece il 12% dei beneficiari. Interessante è anche il dato anagrafico: il 94% dei beneficiari ha meno di 40 anni, il 61% non ha compiuto 25 anni.

L’inserimento sociale dei richiedenti asilo passa anche attraverso atti come l’iscrizione alla residenza anagrafica del comune; il rilascio del codice fiscale; l’iscrizione al servizio sanitario nazionale; l’inserimento a scuola dei minorenni; il supporto legale; l’offerta di corsi di lingua italiana; l’inserimento in un percorso di formazione o lavorativo. Attività che in questo momento impiegano circa 14mila persone.

Discorso a parte vale per i CAS, i Centri di Accoglienza Straordinaria, introdotti nel 2015 per gestire “arrivi consistenti e ravvicinati di richiedenti” che rischierebbero di ingolfare il sistema ordinario di accoglienza. Al momento sul territorio nazionale sono presenti circa 5mila strutture in grado di garantire 80mila posti letto. A settembre 2022 ne erano occupati 60mila.

In totale, secondo l’ultimo report del ministero dell’Interno rilasciato nel settembre 2022, nel sistema (sommando prima e seconda accoglienza) sono presenti circa 100mila persone, segnando un discreto aumento rispetto ai 75mila del 2021. Facendo una rapida proporzione, è evidente che la maggior parte – il 68% – è ospitata nei CAS, con un meccanismo che sta trasformando una misura di emergenza in una prassi.

Una prassi che ha gravi ricadute sull’efficienza del meccanismo e sull’effettiva integrazione e accoglienza dei migranti che arrivano in Italia.

 

Fotografia: Sujeeth Potla
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