Università di Milano Bicocca

Per il ciclo Di-Segno Nero


Nel discorso del 16 maggio, quando ha giurato come capo del governo per il suo quarto mandato consecutivo, Viktor Orbán ha prospettato per i popoli europei «un decennio di pericolo, incertezza e guerra». Ma in questo scenario, ha continuato, Bruxelles e l’occidente appaiono in preda a una «debolezza spirituale» che induce al «suicidio».

Tra i segnali più clamorosi di questa tendenza vi sono il programma di «grande sostituzione» dei popoli, mirato a rimpiazzare i «bambini cristiani» che non nascono più con i migranti; la «follia del gender», che vede l’individuo come creatore della propria identità sessuale; e il programma «liberale» che «pretende di fare a meno degli stati-nazione e del cristianesimo».

Nel panorama dei partiti della destra radicale populista, europea e americana, Orbán rappresenta probabilmente il leader politicamente e retoricamente più raffinato. E il suo discorso offre una sintesi efficace di alcuni temi chiave che compongono l’apparato discorsivo in uso tra queste forze: la patria e la difesa dei confini sovrani; la famiglia e i valori cristiano-tradizionali; e il concetto di libertà, impiegato in modo semanticamente ambiguo. Sono tre parole – patria, famiglia e libertà – che permettono di tracciare un percorso attraverso il linguaggio della destra, pur nelle variazioni di accento che troviamo nei diversi partiti e in diversi paesi.


PATRIA

Le prime due parole, patria e famiglia, ricorrono spesso come parte di uno stesso discorso, al cuore del quale si trova il richiamo a un ordine presunto «naturale» da difendere e restaurare. Un ordine che ha un versante esterno nei confini solidi che separano gli Stati-nazione, e uno interno alle gerarchie sociali, di genere, sessuali. «Patrioti» sono, nelle parole di Giorgia Meloni, di Marine Le Pen o di Donald Trump, non solo coloro che hanno a cuore il destino della nazione e ne difendono i confini, ma anche i paladini dei valori religiosi, comunitari e familiari.

Nella narrativa della destra radicale populista, un «popolo» inteso come ethnos, fondato sulla discendenza o sulla cultura e religione comune, reclama il diritto di decidere chi può entrare nel territorio dello stato e a quali condizioni, ma ambisce anche a far valere la forza della tradizione contro le pretese del riformismo sociale che minacciano la famiglia come «unità fondamentale» della nazione.

Entrambi i versanti di questo disegno politico appaiono essenziali nella battaglia condotta in nome dell’«identità»: un concetto chiave, capace di unire le maggioranze nazionali, razziali, religiose o sessuali – che si percepiscono come discriminate, ignorate, minacciate –, in uno sforzo comune per essere riconosciuti come il vero (e unico) popolo titolare di diritti.

Non c’è migliore illustrazione, in proposito, dell’ormai famoso refrain di Giorgia Meloni: «Io sono Giorgia, sono una donna, sono italiana, sono una madre, sono cristiana, non me lo toglierete».

L’ordine dei generi, la nazionalità, i ruoli familiari, la religione, sono tutte dimensioni identitarie messe a repentaglio dalle forze «globaliste» e dalle élite cosmopolite, che oltre a favorire l’immigrazione di massa corrompono la cultura tradizionale della nazione.

Da qui anche l’atto di accusa all’Unione Europea da parte dei partiti cosiddetti «sovranisti», critici verso il processo di integrazione sovranazionale. Basta leggere la dichiarazione comune firmata a luglio 2021 dai leader di sedici partiti dell’ultradestra, tra cui Marine Le Pen, Viktor Orbán, Jarosław Kaczyński, Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Santiago Abascal di Vox. L’Unione Europea, affermano, «sta diventando sempre più uno strumento di forze radicali che vorrebbero realizzare una trasformazione culturale e religiosa, per arrivare alla costruzione di un’Europa senza nazioni». Di contro, la cooperazione tra le nazioni dovrebbe basarsi «sulle tradizioni, il rispetto della cultura e della storia degli Stati europei, sul rispetto dell’eredità giudaico-cristiana dell’Europa e sui valori comuni».

È dunque principalmente in termini di cultura, tradizione e valori che questi partiti declinano lo sforzo di difesa della sovranità. Si tratta, fondamentalmente, di un’istanza di protezione della way of life nazionale e tradizionale contro la minaccia dei flussi migratori globali e della società aperta. Di fronte al declino effettivo della sovranità degli Stati-nazione, messa in crisi sia dal ruolo crescente degli organismi sovranazionali, sia dalla subordinazione di fatto del potere politico ai poteri economici globali, il sovranismo non ha la possibilità, né forse l’ambizione, di produrre più che un simulacro della sovranità perduta: un simulacro edificato sulle basi di una presunta identità comune.

I confini duri sembrano funzionali soprattutto a produrre un’immagine rassicurante del mondo, in cui sia possibile riconoscere una chiara separazione tra dentro e fuori, tra «noi» e «loro». La «patria» dei «patrioti» funziona allora come quell’heartland, quella «terra del cuore» dell’immaginario collettivo, che secondo Paul Taggart dà forma, con la sua carica emotiva, all’idea di popolo del populismo.

FAMIGLIA

A saldare la retorica della patria con i discorsi a difesa della famiglia è spesso la figura più capace di suscitare investimenti emozionali a livello collettivo: la madre o, negli slanci più retorici, la mamma. «La patria è la prima delle madri», ha detto Giorgia Meloni nel suo discorso di apertura della recente conferenza programmatica di Fratelli d’Italia. Ma «la mamma» è anche – sempre – la mamma, e «difendere l’identità di donna e di madre» è uno dei pilastri del suo programma conservatore. In modo simile Marine Le Pen, che per la corsa all’Eliseo ha scelto lo slogan «femme d’État», donna di stato, ama presentarsi come una madre, figura protettiva della famiglia e della nazione.

Un legame stretto unisce così il discorso sovranista ostile all’immigrazione, al multiculturalismo e all’integrazione politica sovranazionale, e l’agenda conservatrice sulle politiche familiari.

La famiglia tradizionale va difesa dalle pretese trasformatrici del femminismo, del movimento Lgbt+, del riformismo sociale, sia perché è il luogo primario della sicurezza e dell’identità, sia perché rappresenta la forma principale di welfare sostitutivo in tempi di riduzione degli investimenti pubblici, sia infine perché è l’unità riproduttiva della nazione, il baluardo della stirpe.

Questo ultimo tipo di argomentazione si fa particolarmente esplicito quando i discorsi riguardano il nodo politico della demografia, e il calo della natalità che affligge i paesi dell’Est e Sud Europa, tra cui l’Italia. Il sogno nativista della destra appare quello del ritorno a una presunta età dell’oro in cui i popoli nazionali vivevano non commisti, omogenei al loro interno per cultura, lingua, religione e tratti somatici: «vogliamo essere quello che eravamo mille e cento anni fa, quando siamo arrivati nel bacino carpatico», ha affermato per esempio Orbán in un’occasione.

In questa prospettiva, il proposito di unificare il popolo assume le sembianze di una biopolitica delle popolazioni, volta a produrre un ethnos omogeneo con tratti di «bianchezza», al cui cuore si trova la famiglia come pilastro di un ordine di genere, sessuale, razziale, che sottomette i diritti individuali al dovere normativo di assicurare la sopravvivenza della nazione.

Il caso più eclatante è quello di Ungheria e Polonia, dove il pugno di ferro sull’immigrazione si unisce a politiche generose di sostegno alla famiglia e alla natalità, nonché – specialmente a Varsavia – con misure gravemente restrittive sulle procedure d’interruzione di gravidanza.

Ecco perché si può considerare quello della destra radicale populista come un progetto politico in cui la dimensione di genere è centrale, sia quando il discorso mira a esaltare i ruoli femminili tradizionali di moglie e madre, sia quando assume caratteri apertamente sessisti e omofobici, lanciando accuse di corruzione morale o manifestando disprezzo verso il femminismo e l’attivismo Lgbt+.

Qui è da situare anche quel grande attivatore di conflitto e collante simbolico per la destra politica e religiosa che è il tema del «gender», o meglio del «pericolo», della «follia», della «dittatura del gender».

La visione che distingue sesso biologico e genere sociale, ampiamente recepita nei documenti internazionali sui diritti delle donne, è descritta nel discorso della destra come una minaccia identitaria, che fluidifica le appartenenze, scardina l’ordine «naturale» della famiglia, e sovverte il primato della sessualità eterosessuale e riproduttiva.

Particolare fonte d’allarme sono i linguaggi e le forme di pensiero critico che intervengono in ambito educativo. Da cui i feroci attacchi su questo terreno, che in Italia hanno bloccato tutti i tentativi di introdurre l’educazione di genere nelle scuole, e in Ungheria sono arrivati a produrre la famosa legge che vieta di mostrare ai minori qualsiasi contenuto che ritragga o promuova l’omosessualità o il cambio di sesso.

LIBERTÀ

Restando in Ungheria, e tornando al discorso di Orbán da cui sono partita, bisogna notare anche un altro aspetto, cioè la volontà di conciliare una visione comunitarista del popolo, incentrata sull’ordine e la tradizione, con il richiamo alla libertà dell’individuo, nel mercato e nella società: «c’è un tempo per la libertà illimitata, un tempo per librarsi in alto», ha detto il primo ministro, «e anche un tempo per la disciplina gerarchica, per il dovere».

Di quale libertà parlano i populisti di destra? E come si armonizza con la visione gerarchica della società? Può sorprendere non poco, per esempio, riscontrare tra gli Appunti per un programma conservatore del partito di Giorgia Meloni – erede della destra sociale italiana – ben cinque su dodici capitoli che contengono nel titolo la parola «libertà»: libertà di impresa, ma anche di espressione, di fare scelte politiche, di credere nella giustizia, e persino di emergere in base al merito – tema classico, questo, della forma di pensiero neoliberale.

Dunque, mentre i leader populisti di destra prendono oggi a bersaglio quelli che sono additati come prodotti del liberalismo – i diritti universali, le libertà delle donne e delle minoranze sessuali, il multiculturalismo – sarebbe riduttivo vedervi il segnale di una rivincita della tradizione e della gerarchia contro la cultura dell’individualismo.

È questo, tra l’altro, uno dei paradossi di fronte a cui ci ha posto la pandemia di Covid-19: la visione della destra law and order che grida alla «dittatura sanitaria», dei campioni del comunitarismo che difendono un ideale anarco-individualista di libertà, nelle piazze «no green pass» o «no vax».

Le ragioni di questa apparente incongruenza sono in parte di tipo strategico – la volontà di occupare lo spazio dell’opposizione all’establishment, o di cercare i consensi del mondo imprenditoriale – ma in parte attengono alla natura propria di questa nuova destra. Che non è né anti-individualista, né anti-liberista. È anzi imbevuta di quella particolare versione dell’individualismo moderno – esaltato negli ultimi decenni dal neoliberismo – che proclama la sovranità dell’Io su di sé, mentre recide il vincolo di responsabilità che poggia sul rispetto della pari dignità di ognuno.

Proprio facendo leva sull’Io, sulla singolarità irriducibile di questo pronome, la destra radicale populista può mobilitare sentimenti di avversione verso determinate categorie di «diversi» e di «nemici»: che siano gli stranieri, i neri, le femministe o gli attivisti Lgbt+. Ciò che fa è esaltare le pretese egoistiche degli individui che formano una parte della collettività, contro tutte le altre.

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