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Proviamo a capire quest’ultimo mese di politica italiana allargando un po’ il quadro, andando cioè oltre la cronaca degli eventi e oltre i concetti più utilizzati nell’analisi di quest’estate agitata.
Intanto, come e perché si arriva alla crisi? La crisi nasce in seguito a diversi inediti nella storia repubblicana italiana. Il più importante dei quali è legato all’oscillazione del consenso: la Lega di Salvini, nel giro di 14 mesi passa dal 17% delle elezioni 2018 a un potenziale 38-40% tra luglio e agosto (cifra verosimile, dato il 34% di fine maggio alle europee). Di converso, il Movimento 5 Stelle passa dal 33% di marzo 2018 al 15% circa di fine luglio. Cosa ci dice questo inedito? Che l’elettorato ormai ha raggiunto livelli di fluidità quasi istantanei. Cambia preferenza e opzioni di voto in tempi rapidissimi e lo fa in base alle nuove dinamiche vincenti nell’era dei social network e dell’essere “sempre connessi”. Dinamiche legate a una politica sempre più personalizzata (Salvini era diventato egli stesso l’agenda politico-mediatica, ben oltre i suoi temi), sempre più superficiale e impulsiva (in quest’epoca le chiavi sono istinti, impulsi, istanti e immaginario), sempre più inseguitrice dell’opinione pubblica (i leader vincenti sono in realtà abili follower, riescono a posizionarsi dove noi li vorremmo posizionati). Esattamente come per il mercato di prodotti e servizi, gli elettori sono diventati prosumer: consumatori di politica, ma anche produttori; perché sondaggi, algoritmi, sentiment analysis, ecc. servono ai leader per riposizionarsi al meglio come follower, per venderci un racconto che sia il più possibile risonante con le nostre convinzioni e i nostri desiderata.
Usando la terminologia della PNL (Programmazione Neuro Linguistica tanto cara a GianRoberto Casaleggio, non a caso), ciò che fa oggi un leader vincente è un ricalco dell’opinione della massa: riproduce in termini verbali (linguistici), paraverbali (stile e toni della comunicazione), formali (gestualità e postura) e culturali (idee e opinioni) ciò che noi vogliamo sentire e vedere da lui/lei. Da quando esiste la società di massa, la politica di massa (allargamento del suffragio e democratizzazione) e la comunicazione di massa, questa inversione e riconversione leader/follower è sempre esistita. Basta rileggersi Le Bon o i principi della propaganda di Goebbels per capirlo. Tuttavia, è evidente che nell’era della società sempre connessa e delle informazioni in tempo reale, tali caratteristiche si sono amplificate enormemente. Prima di tutto per la fine delle “grandi narrazioni”, che hanno aperto il mercato dell’offerta politica, e poi per tutto il portato di “personalizzazione”, tempo reale ed emotività che prima la televisione, poi web e social network hanno determinato nel nostro modo di vivere ogni cosa, non solo la politica.
Dunque, Salvini tra il 7 e il 9 agosto scorso, sulla scia di sondaggi entusiasmanti e di un predominio assoluto dell’agenda politico-mediatica decide di andare all’incasso, sottovalutando verosimilmente un’altra caratteristica-chiave dell’essere umano. Gli individui sono simultaneamente egoisti e gruppisti: abbiamo bisogno di credere in qualcosa e lo facciamo prevalentemente per ragioni di confort e sopravvivenza; credere serve a formare e cementare gruppi, e i gruppi ci danno sicurezza (come singoli, egoisticamente). Quando facciamo parte di gruppi, però, automaticamente tendiamo a diventare tifosi (quello è il gruppismo), cioè a valutare in maniera distorta le informazioni, con errori di ragionamento tipicamente favorevoli al nostro gruppo. Tuttavia, in una politica così cangiante e con un elettorato così volatile, anche i gruppi si scompongono e si ricompongono velocemente e spesso più per ragioni di “affiliazione personale” che culturale o ideologica. E dunque, il gruppo su cui ha fatto affidamento Salvini, il PD di Zingaretti, era in Parlamento un altro PD, quello di Renzi; per ragioni egoistiche (il seggio garantito più da Renzi che dal nuovo PD) e gruppistiche (appartenenza più renziana che al partito). Allo stesso modo, la scommessa di Salvini ha fatto affidamento su un’altra premessa (ormai) infondata: come possono fare un governo insieme i #senzadime e coloro che dicevano “mai col partito di Bibbiano”? Possono, tranquillamente. Basta trovare un nemico del popolo “comune” (la deriva autoritaria) e puntare sull’oblio immediato dell’elettorato. È vero che la rete conserva tutto e ogni giorno vediamo (e vedremo) dichiarazioni recenti contrarie all’alleanza giallo-rossa, ma è vero anche che è cambiato il modo di viverle e interpretarle. Se sono gruppista e “tifo” per il mio gruppo, accetto tranquillamente anche l’alleato peggiore, se mi convinco che il vecchio alleato sia diventato un nemico. E dunque, ricordo tutto, ma ho dimenticato le sensazioni e le emozioni che quel conflitto mi generava. Fino ai primi di agosto la principale attività e convinzione di un fan dei 5 Stelle era “sparare” sul PD e di un fan (renziano) del PD era “sparare” sui 5 Stelle, convintamente e con grande trasporto emotivo. Oggi evidentemente non più.
Tutto cambia repentinamente, al punto che in un sondaggio IPSOS del 18 luglio scorso il M5S era al 17% mentre in quello del 29 agosto era già al 24%. 7 punti guadagnati in un mese (estivo peraltro). Ciò è avvenuto per una riconquistata centralità/visibilità del partito e per una serie di retromarce e testacoda di Salvini che in due settimane ha tradito il “nocciolo duro” della sua rappresentazione. Altro argomento importante da tenere in considerazione, quello degli archetipi. L’elettore medio ha sempre scelto grazie a scorciatoie cognitive: facilitatori della scelta, simboli e sintesi che evitano di dover studiare e approfondire tutto. Per molto tempo quei facilitatori sono stati le ideologie. Da qualche anno sono diventati i leader, più per caratteristiche personali che programmatiche. Quando il facilitatore diventa il leader, è tipico ragionare in termini di archetipi: cosa emana l’immagine di quel leader? Che cosa rappresenta per me? Salvini aveva indubbiamente rappresentato l’archetipo dell’eroe ribelle (il “capitano” pronto ad affrontare le regole pre-costituite, il politicamente corretto, i giganti, ossia i “poteri forti”). Ma se l’eroe ribelle chiede il voto, deve lasciare “la poltrona”, spegnere i telefoni e non certo implorare il suo vecchio alleato a tornare con lui. A mio avviso, il calo temporaneo di consensi della Lega non è dovuto tanto all’aver causato la crisi, quanto a non aver mantenuto la rotta. Il brand Salvini ha tradito i suoi core values, si direbbe in termini di marketing.
Ciò che stiamo vivendo oggi, a crisi (sembrerebbe) quasi conclusa, è ancora una volta un tentativo di inseguire l’opinione pubblica, senza abbandonare del tutto i propri core values. Uno dei quali è indubbiamente Rousseau: il M5S, specie nel primo anno di governo, ha tradito tanti principi sui quali si era basato nel suo periodo all’opposizione (e non a caso Salvini ne ha approfittato in termini di consenso). La consultazione online degli iscritti resta forse l’ultimo baluardo fondativo, abbandonato il quale davvero non resterebbe più nulla del movimento delle origini. Se Rousseau dirà SI, il “nocciolo duro” sarà salvo e si potrà intraprendere il nuovo percorso con una legittimazione del “popolo”. Fermo restando che stare all’opposizione è l’unico modo certo per crescere nei consensi, per cui se il danno d’immagine autoinflittosi da Salvini non sarà un vero e proprio crollo, la “pacchia” per il leder della Lega non è affatto finita.