Le trasformazioni che ci attraversano e di cui parliamo ogni giorno – tecnologiche, ambientali, globali – sono state tali da far sì che venissero meno le condizioni storiche per riaffermare “culturalmente, socialmente e politicamente” il lavoro, i lavoratori, le “nuove” classi operaie?
È indubbio che ci troviamo in un periodo in cui occorrerebbe ripensare il modo e il mondo del lavoro, i suoi orari, il suo impatto sulla vita delle persone.
La questione è complessa e implica diverse chiavi di lettura. Tra le tante, vorrei richiamare brevemente l’attenzione su due aspetti: il rapporto tra tempo di lavoro e tempo di vita; e la questione della partecipazione. Riproporre al centro la questione del rapporto tempo di lavoro/tempo di vita implica uno sforzo per individuare un nuovo paradigma culturale, prima che sociale e politico. Un rapporto che, particolarmente tra le nuovegenerazioni, sta velocemente evolvendosi e che va anche al di là della giustissima rivendicazione di un salario dignitoso. Quello che sta emergendo è che i due aspetti – vita e lavoro – tendono a fatica a identificarsi.
La vita viene ritenuta come una realtà più importante del lavoro, da non sprecare in un’attività che dà poco o niente alla persona. La questione è stata posta con forza anche da Melenchon nelle recenti manifestazioni in Francia.
Il lavoro a qualsiasi costo sta diventando sempre meno l’obbiettivo principale. La riduzione dell’orario di lavoro e della settimana lavorativa, lo stesso lavoro da remoto, sono obiettivi e aspetti di cambiamenti in corso. Spesso si tratta di scelte individuali che cercano un equilibrio più sostenibile con la propria vita privata; ed è ciò che sembra farsi strada tra le nuove generazioni. Aspetti che emergono anche dalla ricerca di Jacopo Caja e Jacopo Tramontano: Il conflitto generazionale per il lavoro, pubblicata da Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.
Ma sulla questione del rapporto tempo di lavoro e tempo libero non posso non ricordare anche le riflessioni di fine Ottocento di PaulLafargue (Il diritto all’ozio) e quelle più recenti di André Gorz (Metamorfosi del lavoro. Critica della ragione economica).
Siamo in presenza di una critica al lavoro di tipo nuovo, esistenziale, radicale: non è la persona che deve adattarsi al lavoro, è il lavoro che dovrebbe adattarsi alla persona.
Se l’esigenza di espressività e di libertà si manifesta con l’abbandono del lavoro, può però anche trovare una risposta in un lavoro più libero, più scelto, più dotato di senso.
Se affrontiamo la questione dello scopo nel lavoro, diventa importante anche la possibilità di essere coinvolto nel costruire il futuro dell’azienda per la quale si lavora.
E qui ecco il discorso della partecipazione. Un tema che nasconde un intreccio di modelli e di esperienze, di intenzioni e di realizzazioni, di ruoli dati per scontati e di iniziative misconosciute, di programmi istituzionali e di azioni civiche. Tutto questo ha a che fare con la qualità della democrazia perché di essa il cittadino-lavoratore è il protagonista.
Sicuramente la partecipazione dei lavoratori che è stata proposta dai sindacati confederali già un po’ di anni fa, sulla base anche dell’art.46 della Costituzione, al di là del fatto che sembra aver fatto pochi passi, dovrebbe confrontarsi con queste nuove aspettative. Il che implicherebbe, comunque si declini la partecipazione dei lavoratori all’impresa, anche la necessità di misurarsi con questo scenario che implica una diversa organizzazione del lavoro e del tempo impiegato per svolgerlo.
In tale contesto occorre ricordare le esperienze di partecipazione che caratterizzano il cooperativismo.
Come scrive Richard Sennett, (cfr. Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione) “la cooperazione è uno scambio in cui i partecipanti traggono vantaggio dall’essere insieme, e in questo sta – qui e ora – la sua forza.”
In Italia sono state recuperate in forma cooperativistica decine di imprese a rischio di chiusura grazie alla sinergia fra comunità solidali di lavoratori e lavoratrici e istituzioni pubbliche. Al momento anche la GKN sta valutando la possibilità di una reindustrializzazione dal basso in termini cooperativistici.
Il richiamo a questi due aspetti – tempo di lavoro- tempo di vita e la partecipazione –, pur nella loro “apparente diversità”, non sollecitano forse il bisogno di quell’“utopia pratica” di cui ha spesso parlato Pierre Rosanvallon per ritrovare l’agire politico della sinistra?
Foto di copertina di Yogendra Singh.