Ricercatore dell’area Futuro del Lavoro di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Il diffondersi senza precedenti di un sentimento anti-immigrati e l’inadeguatezza della politica comune europea di regolamentazione dei flussi migratori, continua ad alimentare il consenso a partiti e movimenti xenofobi e anti-europeisti.

In questo contesto, l’Italia, punto centrale di approdo sulla rotta del Mediterraneo centrale, vive oggi una massiccia enfasi su questi argomenti politici, in particolar modo a seguito del picco di sbarchi registrato nel 2016 e nella prima metà del 2017. I tassi di respingimento più elevati e in crescita rispetto ad altri paesi, ne sono una diretta conseguenza.

Le politiche che sono state attuate chiamano in causa uno sbilanciamento degli investimenti più in favore di misure di accoglienza che di integrazione. Tra gli elementi che denotano in maniera particolare la carenza di programmi di integrazione concreti vi è soprattutto l’assenza di misure che riguardano l’ingresso nel mercato del lavoro. Alcuni spunti interessanti in tal senso si possono ottenere da una delle aree tra le più economicamente attive e vivaci del Paese, come il territorio milanese.

Immagine tratta da Il giornale dei lavoratori, 22 gennaio 1964

 

Fotografia tratta da Il giornale dei lavoratori, 22 gennaio 1964

 

I dati contenuti nel recente rapporto I Migranti nella Città Metropolitana di Milano, a cura dell’Osservatorio del Mercato del Lavoro della città metropolitana, riportano che la presenza di forza lavoro non di origine italiana rappresenta una presenza consolidata da diversi anni ormai, attestandosi nel 2016 su un rapporto di 17 occupati ogni 100. In questo contesto impatta in maniera particolare la provenienza non comunitaria pari al 12,5% di tutti gli occupati dell’area metropolitana, dato che si accompagna facilmente alla percentuale del 11,6% di cittadini di provenienza non comunitaria sul totale dei residenti.

Allo stesso modo il tasso di occupazione tra non-italiani e italiani risulta del tutto comparabile (rispettivamente 68,5 e 68,4), portando anche a un tasso di disoccupazione dei non comunitari più basso rispetto alla media nazionale (10,1% a fronte del 16% nazionale). Cifre, queste, che lasciano intendere come l’integrazione lavorativa nel contesto milanese non sia affatto scarsa.

A dispetto di questi interessanti elementi “quantitativi”, l’area milanese non è da meno rispetto al panorama nazionale per quanto riguarda gli aspetti più “qualitativi” di questo tipo di occupazione. I lavoratori di origine non italiana continuano a essere occupati prevalentemente in settori dei servizi a bassa qualificazione, talvolta anche in condizioni di over-education rispetto ai titoli di studio posseduti, e di conseguenza scarsamente retribuite. Il terziario assorbe infatti l’85% di questi lavoratori, a fronte del 67,9% che è livello nazionale.  È opportuno rintracciare quelle che possono essere le traiettorie che spiegano queste tendenze. Cosa porta i lavoratori di origine non italiana a concentrarsi su tali segmenti occupazionali? Ci sono degli ostacoli che si possono rintracciare rispetto all’accesso a professionalità differenti?  Esiste una via per una integrazione alternativa?

A causa dell’intreccio di fattori politici, culturali e economici specifici, l’area milanese è stata oggetto di migrazioni economiche fin dai primi decenni post-unitari: posta a uno dei vertici del triangolo industriale, Milano ha attratto lavoratori qualificati e non, registrando in specifici intervalli temporali le percentuali maggiori di flussi di migrazione interna. Flussi legati a stretto filo con le congiunture economiche e i modelli produttivi imperanti nell’area urbana e suburbana, caratterizzandosi quindi per tempistiche di permanenza e localizzazione dei gruppi di lavoratori migranti presenti in città.

Se il primo cinquantennio unitario si è infatti caratterizzato per una migrazione prevalentemente temporanea di popolazioni dalle campagne, legate ancora all’alternanza di cicli di produzione agricola a cicli di lavoro industriale, il primo Novecento ha registrato quote sempre più significative di insediamento stabile dei lavoratori migranti. I nuovi cittadini, congiuntamente alla crescita della popolazione urbana “stanziale” hanno inciso profondamente sul volto e sul tessuto della città meneghina, ridisegnandone i confini verso traiettorie e assi differenti.

Immagine edilizia popolare a Milano anni ’70

 

Nonostante la presenza nei settori di servizi alla persona, nell’edilizia e nel piccolo commercio – spesso informale- l’occupazione prevalente dei nuovi cittadini di recente migrazione si concentra nei poli industriali milanesi. La conseguente crescita dei quartieri operai nella cerchia esterna al perimetro del centro cittadino ha insistito sulle aree dove sorgevano gli impianti industriali e produttivi, a loro volta legate agli snodi infrastrutturali, premendo dunque sulle aree degli scali ferroviari della cintura a Nord Est della città e in quella a Sud-Ovest, con la complicità della presenza dei canali del Naviglio.

Questa stretta correlazione fra infrastrutture, fabbriche e conseguente insediamento operaio ha fortemente caratterizzato la successiva crescita urbana di Milano negli anni della Repubblica, ponendola sull’asse Nord-Est, con il conseguente disallineamento del centro storico rispetto alla cerchia della circonvallazione esterna.

Questa tendenza è stata più che confermata dall’esplosione insediativa intercorsa negli anni della grande migrazione dal meridione. I decenni ‘50, ‘60 e ‘70 coincisero con l’ingresso nella città e nel suo hinterland di quasi 800.000 nuovi abitanti, caratterizzandola nell’immaginario collettivo nazionale come una delle principali mete della migrazione economica dal Meridione.

Nel 1961, fra gli anni di maggior picco di partenze/arrivi, l’occupazione agricola registrò un crollo del 31% degli addetti rispetto alla rilevazione registrata dal censimento del decennio precedente, mentre gli impiegati nell’industria crebbero del 26%. Questo spostamento di forza lavoro da un settore ad un altro, è da leggersi in stretta correlazione allo spostamento sull’asse Sud-Nord della popolazione italiana.

Questa polarizzazione lungo i due assi della penisola venne rimessa in discussione dalla fine degli anni ‘70, quando la composizione sociale di città industriali si ridefinì nuovamente: sia come numero di arrivi e partenze che come composizione dei gruppi presenti nella città. Da un lato i primi effetti della delocalizzazione nei poli industriali, che comportarono l’irrobustimento della migrazione verso altri paesi europei e la progressiva diminuzione della popolazione addetta al lavoro industriale, operaio. Dall’altro, l’inizio delle prime migrazioni di lavoratori extranazionali.

Gli anni ‘70 segnano infatti il momento in cui l’Italia cessa di essere esclusivamente paese di emigrazione e di immigrazione interna per diventare un paese capace di attrarre popolazioni dall’estero. In questo senso, il XII Censimento generale del 1981 segna una “scoperta” che intacca gli stilemi classici con cui si identifica, anche dal punto di vista dell’immaginario, la nazione: con mezzo milione di stranieri, l’Italia è ufficialmente un paese di immigrazione. Gli italiani che cercano fortuna all’estero scendono a 50.000 l’anno, mentre gli stranieri in ingresso nella penisola salgono a circa 300.000, di cui un terzo cittadini dell’allora Comunità Europea. Come già era avvenuto per le migrazioni interne, chi arriva in Italia dall’estero si concentra inizialmente nelle città del Centro-Nord, perché è qui che si pensa di poter intercettare migliori opportunità lavorative e di poter far leva sulle comunità che si formano attraverso le diaspore.

E fra le città, nuovamente il polo industriale in ristrutturazione dell’area milanese richiama flussi ingenti. Sarà solo in un secondo momento, con lo stabilizzarsi delle prime comunità di migranti extranazionali, che l’insediamento di queste seguirà traiettorie differenti, sia per concentrazione geografica nella penisola che per settore di impiego, con alcuni casi di “ritorno” alla campagna di alcune nazionalità.

Tutti gli studi e i rilevamenti evidenziano però come la crescita degli ultimi quarant’anni di queste comunità non sia coincida però con la fine dello spostamento degli italiani verso l’estero: secondo il “Dossier Statistico Immigrazione 2017”, elaborato dal centro studi e ricerche Idos nel 2016, sono espatriati almeno 280.000 cittadini italiani, contro 262.929 ingressi stranieri.

L’Italia resta dunque un paese “specialmente” di emigranti o è forse l’intera comunità globale a definirsi sempre più come una società mobile, che fa dello spostamento un elemento fondante delle proprie abitudini di vita?

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