Si propone qui un estratto del testo di John Bingham-Hall, pubblicato da Fondazione Giangiacomo Feltrinelli nel volume Città, sostantivo plurale, disponibile nelle Librerie Feltrinelli e in tutti gli store online.
Le infrastrutture sono state generalmente intese come l’insieme dei sistemi di base che consentono l’attività economica, con la determinazione di infrastrutture specifiche per determinati settori di attività, come industria, trasporti e più recentemente produzione di conoscenza. Contemporaneamente, poiché la produzione artistica è stata sempre più inserita nell’economia dominante sotto forma di industrie creative, è logico che l’attenzione si sia concentrata sulle infrastrutture specifiche che consentono la realizzazione di prodotti culturali e artistici. Anzi, appare sorprendente quanto una tale connotazione specifica sia stata sinora rara. Tuttavia, con le industrie culturali che tendono a essere fortemente concentrate nelle città e a formare una quota crescente della loro produzione economica – per esempio rispetto alla produzione manifatturiera che è stata sempre più allontanata dal contesto urbano nel corso dei processi di deindustrializzazione – sono dimostrati i tentativi da parte delle autorità cittadine di capire quali tipi di infrastrutture debbano essere pianificati, accuditi e forniti al fine di proteggere e stimolare queste economie creative. Questo non vuol dire che le iniziative per stimolare le arti e le industrie creative siano nuove: le infrastrutture culturali sono solo le più recenti di una serie di paradigmi utili per la pianificazione spaziale ed economica della cultura in città. La rigenerazione culturale, incarnata dall’effetto “Bilbao”, propugnava il rinnovamento innescato dalla fornitura di un’istituzione artistica di punta rivolta a un pubblico globale e abilitata da un insieme di investimenti pubblici e privati (Gómez 1998). Comune nella politica di sviluppo urbano alla fine degli anni ‘90 e nei primi anni 2000, questo tipo di strategia, molto copiata a livello globale nel tentativo di ridefinire le città come “culturali”, è stata recentemente criticata per gli effetti negativi che il turismo e gli aumenti del valore immobiliare dovuti a questi interventi altamente visibili e simbolici hanno sui residenti (Dinardi 2017). I quartieri culturali rappresentavano un approccio vagamente più integrato, stabilendo determinate aree della città per investimenti destinati a un insieme di attività culturali, tra cui gallerie, e a interventi nel settore occupazionale in ambito culturale, nel tentativo di creare opportunità per posti di lavoro qualificati e gratificanti destinati ai residenti locali, da affiancare ad altre opportunità dovute al turismo (Roodhouse 2010). Questi quartieri sono stati spesso costruiti da zero in nuovi sviluppi suburbani oppure progettati seguendo una nozione modernista di zonazione urbana, utilizzando la cultura come seme per stimolare la vita civica e commerciale all’interno di nuovi sviluppi, ma spesso fraintendendo quanto effettivamente guida la crescita organica di pratiche culturali distinte. Infine, con l’aumento della mobilità nel mondo del lavoro e la figura dell’imprenditore culturale o tecnologico freelance è diventata fondamentale nel capitalismo avanzato, le città hanno iniziato a favorire la vita notturna, l’intrattenimento e le arti considerandoli un modo per attirare una classe creativa globalizzata (Florida 2005) di lavoratori, che vi prendesse la residenza e proseguisse le loro attività economiche. In questo paradigma, l’importanza di zone specializzate in cultura è diminuita, con la città nel suo complesso considerata come un prodotto culturale da vendere per attrarre investimenti e imprenditorialità all’interno di un mercato globale: un approccio che ormai è considerato anche da chi lo proponeva come elemento che ha contribuito a una finanziarizzazione e a una cultura urbana che non fa nulla per aumentare la qualità della vita o l’espressione culturale dei residenti.
Non c’è spazio qui per approfondire questi sviluppi in modo corretto – questa breve indagine comprime diversi decenni della creazione e della critica delle politiche e dei sistemi di valori intorno alla cultura urbana, producendo enormi generalizzazioni. Si spera, tuttavia che, all’interno di diversi sistemi di valori, le città siano state da tempo intese dai loro governi e investitori come infrastrutture materiali per una serie di attività sociali, espressive ed economiche denominate cultura. Non dovrebbe sorprendere, quindi, che il termine infrastruttura abbia iniziato a emergere nelle discussioni sulla politica urbana come un modo per parlare della pianificazione delle città allo scopo di sostenere l’attività artistica. Dal mio punto di vista, però, è largamente usato in modo improprio, per giustificare gli interventi definendoli essenziali, mentre una volta potevano essere visti come facoltativi e che fanno ben poco per sostenere il tipo di ideali politici che ho citato.
L’uso diffuso del termine infrastruttura come un modo specifico per parlare di pianificazione culturale sembra essere emerso all’incirca nel 2016. La città di Melbourne, in Australia, ha prodotto un “Sistema di infrastrutture artistiche per trasformare i bisogni della nostra comunità creativa in un obiettivo chiave dello sviluppo” (Città di Melbourne 2016). L’infrastruttura artistica, si afferma, “aiuta a modellare l’identità della città, favorisce la sua economia e promuove il benessere della comunità. Lo fa sostenendo una vasta gamma di professionisti creativi attraverso la fornitura di spazi e opportunità necessarie per creare lavoro, raggiungere il pubblico e i mercati e massimizzare la partecipazione della comunità alle arti” (City of Melbourne 2016, 4). Il rapporto impegna il governo della città a fornire tre nuovi centri artistici e a “promuovere” spazi di vita / lavoro e case economiche per artisti. In modo interessante, nella sua mappatura delle infrastrutture artistiche esistenti limita esplicitamente la definizione di queste a gallerie, luoghi di musica dal vivo e teatri – tutti gli spazi espositivi per forme che rientrano in una definizione di cultura limitata alle arti. Biblioteche, musei, stadi e municipi rientrano nella vaga categoria di “altro”, mentre vengono tralasciati gli studi d’artista, gli spazi per le prove, i centri per la comunità, le strutture di ricerca, gli alloggi a basso costo per gli artigiani. Le attività creative al di fuori di una definizione ristretta delle “arti” sono considerate generiche nel loro impiego dello spazio: “Altre industrie creative, come studi di architettura e design, case editrici e sviluppatori di giochi, non sono state mappate. Questi settori sono diffusi, ma generalmente non richiedono uno spazio o un’infrastruttura specifici oltre a un ufficio convenzionale. La potenziale crescita di business, arti e acceleratori e incubatori di comunità come spazi di co-working risponde a questa esigenza” (City of Melbourne 2016, 16). La definizione di infrastruttura, quindi, è qui fortemente focalizzata sulla esposizione di una gamma limitata di prodotti che possono essere considerati le arti all’interno di forme specializzate di architettura, con una certa considerazione della necessità di spazi di lavoro che supportano la creazione di quelle forme d’arte ma poco interesse per il più ampio insieme di condizioni che favoriscono la creatività.
Sempre in Australia, il governo del New South Wales nel 2018 ha pubblicato un piano di infrastrutture culturali per “dimostrare l’impegno del governo del NSW nel settore artistico e creativo fornendo infrastrutture culturali di livello mondiale” (Create NSW 2018). Qui l’attenzione si concentra esclusivamente sugli investimenti di capitale in specifici edifici e spazi culturali: il Sydney Modern Project della Art Gallery of New South Wales per “trasformare la Galleria in un museo d’arte del XXI secolo che attirerà sia il pubblico locale sia quello internazionale” (Create NSW 2018, 5); rinnovamento e ristrutturazione della Sydney Opera House, “la principale destinazione turistica australiana” (ibid.); la realizzazione con fondi statali di un nuovo Museo di Arti Applicate e Scienze. La relazione guarda avanti, a modelli per la realizzazione di investimenti futuri basati sulla “gestione centralizzata dei progetti”, una struttura per garantire “benefici economici e sociali” e “monitorare e valutare” le spese. L’infrastruttura assume in questa definizione una tendenza classicamente modernista, come la fornitura di megaprogetti gestita dallo Stato, che mira in larga misura a comunicare all’esterno la salute di quello Stato a un pubblico globalizzato. All’interno di questo sistema di valori, la quantificazione diventa essenziale: il rapporto è parzialmente utilizzato per esibire le somme multimilionarie che lo Stato dovrà investire, e identifica la necessità di “Elaborare come l’infrastruttura culturale del Nuovo Galles del Sud si raffronta con altri Stati e come sarà valutata internazionalmente per comprendere i punti di forza e di debolezza della concorrenza” (Create NSW 2018). Similmente, il governo canadese ha di recente annunciato un investimento di 6,5 milioni di dollari per la ristrutturazione dell’Evergreen Brick Works a Toronto, centro artistico multiuso in un ex sito industriale, e ulteriori 468,2 milioni di dollari a livello nazionale, riuniti sotto il titolo di “investire in infrastrutture culturali”.[i]
(…) Nel Regno Unito, pare che anche le infrastrutture culturali abbiano esplicitamente attirato l’attenzione della politica nel 2016, grazie all’attuale sindaco di Londra, Sadiq Khan. Khan ha promesso nel suo manifesto programmatico di “Realizzare un piano di infrastrutture culturali per il 2030 allo scopo di identificare ciò di cui abbiamo bisogno per sostenere il futuro di Londra come capitale culturale” (Khan 2016). Essendo un impegno programmatico, non entra nei dettagli, ma suggerisce di utilizzare la legge urbanistica per proteggere gli spazi di lavoro, la piccola industria e i siti di vita culturale informale (in contrasto con l’idea più formale di attività artistica), come pub e locali notturni. Al momento della redazione di questo saggio, la strategia è ancora in fase di sviluppo e così poco è stato reso pubblico sull’approccio che verrà adottato. Nelle conversazioni con l’autore, tuttavia, il Culture Team del sindaco che sta sviluppando la strategia ha descritto un approccio basato sulla mappatura e focalizzato sull’identificazione degli spazi di produzione esistenti all’interno di diversi settori culturali (in particolare dove sono state precedentemente svolte poche indagini, come nel settore della danza), identificando dove ci sono carenze di spazio disponibile, e sviluppando norme legislative e linee guida di programmazione che tenteranno di supportare lo sviluppo di proprietà commerciali (il principale modello finanziario a Londra, dove il denaro pubblico per investimenti di capitale in immobili è molto basso) per fornire le infrastrutture necessarie offrendo per esempio linee guida di progettazione per un determinato settore. Uno schema pubblicamente annunciato nell’ambito di questa strategia creerà “zone di imprese creative” in cui finanziamenti focalizzati e regolamenti di urbanizzazione specifici del luogo mireranno a creare nuovi posti di lavoro, stabilire e assicurare nuovi spazi per la produzione creativa e fornire opportunità a giovani di talento che stanno considerando carriere nelle industrie creative”[ii]. Le infrastrutture culturali, quindi, sono inquadrate come spazi lavorativi per artisti professionisti, con il potenziale di riconoscere differenti bisogni spaziali per le diverse attività artistiche, ma in cui queste attività sono suddivise in zone specializzate della città.
[i] https://www.canada.ca/en/canadian-heritage/news/2018/08/investing-in-cultural-infrastructure-in-toronto.html
[ii] https://www.london.gov.uk/press-releases/mayoral/mayor-announces-creative-enterprise-zone-shortlist