Lo humour, l’euforia che nasce dal conoscere la relatività delle umane cose,
il bizzarro piacere che deriva dalla certezza che non ci sono più certezze
M. Kundera, I testamenti traditi
Ne L’arte del romanzo Milan Kundera scrive: “Non c’è pace possibile fra il romanziere e l’agelasta” poiché “non avendo mai udito la risata di Dio, gli agelasti sono convinti che la verità è evidente”[1]. Kundera scrive questa frase rammentandosi del proverbio ebraico secondo cui “L’uomo pensa, Dio ride”. Dio ride, spiega Kundera, perché vede l’uomo affannarsi per una verità che gli sfugge. La saggezza del romanzo sboccia da questa consapevolezza: la verità è una conquista sempre sul punto di disfarsi, il consenso unanime è un miraggio, la traiettoria luminosa delle cause è una falsa pista.
Difendere il romanzo significa, per Kundera, riabilitare l’esperienza concreta nelle sue dissonanze, affidarsi a una narrazione che non riconosce alcun punto di vista privilegiato e fa della verità il movimento tortuoso che unisce e separa ciascuno dei personaggi.
A Kundera piace pensare che un giorno François Rabelaisabbia udito la risata di Dio e che dall’eco di quella risata abbia dato vita al romanzo europeo. È proprio Rabelais, infatti, a far riemergere dall’oblio la parola agélaste, colui che non ride, che non ha sense of humor.
Georges Minois, nel suo libro Storia del riso e della derisione, spiega per quali ragioni certe correnti del pensiero antico si dichiarassero agelaste e diffidassero dal riso: “colui che ride si dissocia dall’oggetto del suo riso, prende le distanze dall’ordine del mondo invece di integrarvisi”[2]. Il riso avrebbe dunque il potere della distanza: esso apre un varco, un margine di dubbio, una linea di fuga. Colui che ride fa un passo indietro rispetto all’ordine del mondo: “il politico, il magistrato, la guardia, l’innamorato non riescono a ridere dei valori che difendono”[3].
Rabelais, ci racconta Kundera, aveva paura di chi si prende troppo sul serio: aveva timore degli agelasti giacché sono convinti che “tutti gli uomini debbano pensare la stessa cosa e che loro stessi siano esattamente ciò che pensano di essere”[4].
Essere esattamente ciò che si pensa di essere, senza ammettere pieghe, increspature, orli e rovesci. È questa la certezza monolitica che il potere del riso manda all’aria. Riaffermare i diritti sghembi e sgangherati del riso significa difendere un’esperienza di libertà: la libertà perturbante e irriverente di distanziarsi da ciò che si dice, da ciò che si pensa e da ciò che si fa per scoprirsi ogni volta diversi da quel che si pensava di essere.
[1] M. Kundera, L’arte du roman, tr. it. di E. Marchi e A. Ravano, L’arte del romanzo, Adelphi, Milano 2005, p. 220.
[2] G. Minois, Hisotoire du rire et de la dérision, tr. it. di M. Carbone, Storia del riso e della derisione, Edizioni Dedalo, Bari 2004, p. 72.
[3] Ibidem.
[4] M. Kundera, L’arte del romanzo, cit. p. 220.
Consigli di Lettura
Lo scherzo è il titolo di un romanzo che Milan Kundera pubblica in Cecoslovacchia nel 1967. Kundera racconta la storia di uno scherzo che non viene compreso, che non genera il riso, che trascina nel grottesco. Lo scherzo ci parla di un mondo che ha estenuato il senso della duplicità sotto il peso monolitico dell’ideologia. Ma, più in generale, di un mondo che ha annientato l’esultanza catartica del riso perché ha dimenticato l’abisso tragico. Se il senso del comico sgorga dalla coesistenza tragica dei contrasti, nel mondo del razionalismo apollineo non c’è spazio per lo scherzo, non c’è catarsi per l’eroe.