Pubblichiamo qui un estratto da “Modelli formativi e attori chiave” di Mario Salomone, dal libro a cura di Bianca Dendena e Marina Trentin, Energia che si trasforma. Opportunità e sfide sociali del processo di decarbonizzazione, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli 2020.
La decarbonizzazione, come processo obbligato dagli accordi e dalle politiche nazionali e internazionali e, soprattutto, ovviamente, dall’urgenza di rallentare e fermare entro una certa soglia il riscaldamento globale e dalla inevitabile scarsità di risorse non rinnovabili, sta sviluppando, e sempre più dovrà sviluppare in un futuro il più possibile prossimo, nuove opportunità di lavoro, nuove professionalità e nuovi modi di intendere anche mestieri e professioni esistenti.
L’economia verde senz’altro è la più promettente in termini di posti di lavoro creati, ma in generale è l’intero mondo del lavoro a essere chiamato a partecipare al grande sforzo di conversione dei modi di produrre e consumare. Più o meno tutti i settori che continueranno a esistere dovranno dunque imparare a consumare meno materiali e meno energia, a ridurre i rifiuti, a cambiare i processi produttivi, eliminando le sostanze inquinanti ed eliminando le emissioni di gas climalteranti. Una parte importante di questa trasformazione è costituita dall’economia circolare.
La grande conversione per fermare le fiamme che minacciano la vita del pianeta, e con essa quella del genere umano, comporta però, come si è detto, anche profondi cambiamenti nelle pratiche sociali e nelle organizzazioni.
L’innovazione tecnologica rende la decarbonizzazione sempre più efficiente sia sul fronte del risparmio energetico (che interviene a monte sul fabbisogno di energia), sia su quello della produzione e distribuzione di energia verde, l’agroecologia si propone di soddisfare il bisogno di cibo senza impoverire il suolo e inquinare, dagli scarti si ricavano materiali senza doverli estrarre dal sottosuolo. Sono solo alcuni esempi delle conoscenze e delle capacità richieste in ogni campo.
Allo stesso tempo, si assiste a un potente e diffuso movimento di innovazione sociale, che spinge il mercato e fa emergere modelli energetici “di prossimità” e comunitari, associato all’attenzione ai comportamenti che concorrono al risparmio energetico, di materiali e di suolo, sul lato degli stili di vita, riducendo il rischio di “effetto rimbalzo”. Cooperare, manutenere, ottimizzare, condividere sono strategie di resilienza da introdurre nei modelli formativi.
È dunque possibile affermare che…
- I modelli formativi dovranno sempre più orientarsi su competenze trasversali e sul dialogo/contaminazione tra linguaggi disciplinari diversi, superando, per esempio, l’attuale compartimentazione tipica dell’istruzione secondaria e dell’università.
- I modelli formativi dovranno tenere conto delle esigenze e delle caratteristiche attuali dell’apprendimento, che oltre a essere LLL (lungo tutte le età della vita, “lifelong learning”) è anche “life wide”, in contesti di apprendimento ibridi, che configurano la necessità di un approccio transdisciplinare multi-stakeholder, tenendo conto che l’apprendimento coinvolge gruppi sociali diversi, prospettive e così via, anche in luoghi non convenzionali (spesso al di fuori dei tradizionali confini istituzionali).
- La decarbonizzazione esalta la natura interdisciplinare delle relazioni persone-società-ambiente, la necessità di affrontare i problemi su scala locale e globale e l’incertezza delle soluzioni o decisioni possibili, con conseguenze di tipo epistemologico, metodologico e valoriale.
- I modelli formativi (da adattare ai diversi ordini e gradi del sistema di istruzione e formazione e alla sfida di rendere chi già nel mondo del lavoro – autonomo o dipendente – è capace di affrontare trasformazioni profonde e rapide) dovranno dunque avere un’ispirazione comune e attraversare i già permeabili confini tra educazione formale, non formale e informale.
- Se ne deduce, come già accennato, che l’impegno multi-stakeholder coinvolge non solo gli attori delle istituzioni pubbliche e private deputate all’istruzione e alla formazione, ma anche le amministrazioni pubbliche, le imprese, le organizzazioni della società civile, le comunità locali, sia come fruitrici dei modelli formativi, sia come fornitrici di conoscenza e di esperienza.
L’impresa non è certo facile.
La trasformazione in società decarbonizzate deve fare i conti con resistenze psicologiche, tecnologie, infrastrutture, organizzazioni pubbliche e private, mercati, preferenze e abitudini dei consumatori, norme di regolazione, stili di vita, inerzia del “business as usual”…
Diamo per scontata l’azione delle lobby che fondano i loro affari sull’uso di fonti fossili di energia e in generale su una produzione di massa che per perpetuarsi ha bisogno di sollecitare continuamente i consumi e di mantenere alti i margini di profitto a spese dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori. Queste lobby (per non parlare del peso assunto dal potere finanziario) sono in grado di controllare i mass media e di influenzare le decisioni politiche, ma trovano anche il consenso di larghi settori dell’opinione pubblica internazionale, sia tra chi gode di una condizione di privilegio, sia tra chi, essendone escluso, aspira a una vita migliore.
[…]
Alcuni studiosi hanno parlato di un carbon lock-in, un blocco in cui sono rimaste intrappolate le economie industriali a seguito di un percorso tecnologico e istituzionale dipendente dalle energie fossili, che vede i governi privilegiare e finanziare preferibilmente i sistemi tecnologici esistenti (dietro i quali si muovono forti interessi economici) piuttosto cheintraprendere una lungimirante innovazione e che vede le economie in via di industrializzazione seguire la stessa strada.
Ci sono almeno tre cause di questo lock-in:
- lock-in associato a tecnologie e infrastrutture che emettono direttamente o indirettamente CO2 e modellano l’approvvigionamento energetico;
- lock-in associato a governance, istituzioni e processi decisionali che incidono sull’energia produzione e consumo, modellando l’offerta e la domanda (diretta o indiretta) di energia o l’emissione di gas serra dovute ad altri processi;
- lock-in relativo a comportamenti, abitudini e norme associati alla domanda di beni e servizi.
Nei politici, nei manager e nei mass media da un lato e in molte persone comuni dall’altro (quelle, almeno, che non sperimentano duramente sulla propria pelle gli effetti del riscaldamento globale) si scontrano due visioni del mondo. La visione che porta alla rimozione o alla minimizzazione del pericolo può essere dettata dall’interesse egoistico e dalla condizione sociale, ma anche da schemi mentali introiettati, in parte frutto dello stesso processo evolutivo della specie umana, che possiamo così riassumere.
- I cambiamenti, fino a tempi recenti, sono stati abbastanza lenti: la concentrazione di particelle di CO2 è rilevabile solo dagli strumenti dei climatologi, l’arretramento dei ghiacciai e delle calotte polari può essere constatato solo confrontando vecchie foto o immagini satellitari e così via. La mente può ricevere solo notizie di differenze e distingue con difficoltà tra una variazione lenta e uno stato: è per questo, tra l’altro, che l’umanità non si accorge di un inquinamento che cresce poco a poco. Il fenomeno può essere definito come “sindrome della rana bollita”: una rana che nuotasse in una pentola scaldata molto gradualmente si adatterebbe al cambiamento, finché non sarebbe troppo tardi per saltare fuori. A quel punto, ormai incapace di muoversi, morirebbe. Oggi il cambiamento, purtroppo, è sempre più veloce e quindi meglio percepibile, ma il danno ormai è fatto.
- Molte forme di inquinamento e molti impatti sfuggono ai nostri sensi. L’evoluzione ci ha insegnato a distinguere con i cinque sensi, per esempio, un cibo fresco da uno avariato, così come i processi produttivi sono rimasti generalmente comprensibili dagli individui fino all’avvento della società industriale. I sensi non sono invece in grado di riconoscere le trasformazioni e gli additivi del cibo industriale, né gli impatti nascosti di tutto quanto ci circonda. L’impronta ecologica, idrica e di carbonio, l’intensità di materiali movimentati per unità di prodotto o servizio, i chilometri di viaggio incorporati negli alimenti e nelle merci e, ultimo ma non meno importante, l’impatto sociale dei nostri stili di vita, non ci sono noti e possono essere sparsi in qualunque parte del mondo, lontani e sconosciuti a noi.
- La maggior parte delle persone è concentrata su dimensioni temporali e spaziali di prossimità, un “qui e ora”: più gli eventi si allontanano nello spazio e nel tempo, fino a abbracciare l’intero pianeta e un futuro anche lontano, più diminuiscono l’interesse e l’attenzione. I disastri e le violenze che colpiscono paesi lontani ci emozionano e commuovono sul momento, ma subito dopo pensiamo ad altro, il futuro è difficile da immaginare e gli scenari dipinti dagli scienziati restano relegati in grafici e mappe che pochi conoscono.
- Millenni di cultura hanno convinto gli esseri umani della loro eccezionalità, staccandoli psicologicamente dalle loro origini evolutive e dalla loro dipendenza dalla natura; poi la scienza e la tecnologia, con i loro straordinari ed esponenziali progressi, hanno indotto nell’umanità la convinzione di poter controllare impunemente l’intero pianeta e di essere esente da reali rischi, ritenuti tutti alla lunga dominabili e rimediabili grazie allo stesso progresso che li ha causati.
- La rimozione è un meccanismo psicologico che ci protegge dal rischio di stress eccessivo, ma che può anche indurci in gravi errori, come nel caso del fumatore che ignora consapevolmente i duri moniti ben visibili per legge sui pacchetti di sigarette o di tabacco. Da tempo la psicologia ha studiato i meccanismi cognitivi che ci fanno preferire le notizie tranquillizzanti e quelle che confermano i nostri pregiudizi e le nostre opinioni, anche se fallaci.
- “La moneta cattiva scaccia quella buona” è una legge che risale probabilmente all’invenzione di questo mezzo di pagamento, ma vale anche per l’informazione, quando autorità e mass media martellano con notizie fuorvianti e/o queste dilagano in modo “virale” sulle reti sociali, sfruttate da potenti centrali di disinformazione organizzata. La Storia è però piena di tragici esempi, anche nei secoli passati. Accettiamo facilmente paure costruite ad arte, ci sfoghiamo su capri espiatori, ci interessiamo morbosamente dei delitti di sangue, e sottovalutiamo quanto dovrebbe farci veramente paura.
- La scuola e l’università si sono sviluppate in base a una crescente frammentazione e compartimentazione delle discipline, mentre la realtà è fatta di interconnessioni e interdipendenza. Inoltre, i programmi, i libri di testo, lo stesso corpo docente si rinnovano secondo cicli molto lenti, mentre tutti gli indicatori dalla rivoluzione industriale in poi si impennano seguendo leggi esponenziali che i sistemi formativi faticano a seguire, con il risultato che molti dei saperi insegnati risultano inadeguati a comprendere il mondo contemporaneo.
Di fronte al quadro descritto finora, occorrono ampi piani d’intervento educativo, sia formale sia non formale e informale. Il modello ideale è quello di una “educazione sostenibile”, ovvero di un sistema educativo che incorpori la sostenibilità in ogni suo aspetto.
[…]
Il modello formativo, come si è già accennato, deve dunque rispondere a varie necessità.
- L’acquisizione di un’etica della responsabilità verso tutti i nostri simili, le generazioni future, le forme di vita e i processi del pianeta Terra.
- La comprensione della complessità che governa tanto la società umana quanto tutti i fenomeni fisici, con i quali siamo interconnessi.
- L’unicità della realtà, al di là degli specialismi e della babele dei linguaggi disciplinari.