L’inflazione è tornata a correre ai livelli più alti da quarant’anni. Non sono solo le statistiche, però, a suggerire un confronto con gli anni Settanta. Allora come oggi, la fiammata inflazionistica fu alimentata da un incremento dei prezzi dell’energia: due shock petroliferi, nel 1973 e nel 1978-79, portarono il prezzo del barile a decuplicare in poco più di cinque anni.
Allora come oggi, le cause immediate erano riconducibili a tensioni geopolitiche sfociate in sanzioni economiche: nel 1973, furono i paesi arabi dell’OPEC, l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, a imporre un embargo, restringendo la produzione a facendo lievitare i prezzi.
Allora come oggi, il detonatore della crisi fu la guerra: prima quella del Kippur, a seguito della quale i paesi arabi imposero l’embargo ai paesi occidentali che avevano dato il loro appoggio a Israele; poi, dopo la rivoluzione komeinista e il rovesciamento dello Scià, la guerra fra Iran e Iraq ridusse drasticamente le forniture di petrolio provenienti da due fra i principali paesi produttori.
Si può ben capire che oggi, al ripetersi della triste successione guerra-sanzioni-inflazione, siano in molti a rievocare gli anni Settanta e a interrogarsi sulle possibili lezioni di quella storia (per esempio, il Financial Times). Gli aumenti dei costi si estenderanno al di là dei prodotti energetici, provocando un incremento generalizzato del livello dei prezzi come si ebbe cinquant’anni fa? Si tratterà di un’impennata momentanea o dobbiamo aspettarci ancora un decennio di inflazione elevata? Sarà accompagnata anche in questo caso da una depressione persistente dell’attività economica, risuscitando quel minotauro economico per il quale si coniò allora il nome di stagflazione?
Chi ne soffrirà maggiormente le conseguenze? E, soprattutto, quali sono i possibili rimedi?
Aldilà delle superficiali analogie, vi sono certamente alcune significative dissomiglianze fra la situazione attuale e quella che, negli anni Settanta, pose fine a trent’anni di crescita, mettendo a repentaglio la capacità delle economie capitalistiche di uscire vincitrici dal confronto con il comunismo.
Alcune differenze suggeriscono che lo shock questa volta potrebbe avere effetti più contenuti e potrebbe giustificare un relativo ottimismo. Innanzitutto, gli incrementi dei prezzi dell’energia sono oggi meno marcati (come ha rilevato anche il Council on Foreign Relations) e incidono in misura inferiore su un sistema produttivo che, rispetto a cinquant’anni fa, è caratterizzato da una minore intensità di energia e di materie prime (Bloomberg). In secondo luogo, rispetto gli anni Settanta, la crescita demografica è oggi assai più contenuta; perciò le pressioni inflative non risultano amplificate da un incremento della domanda.
Di converso, vi sono altre, più numerose e forse più significative differenze che potrebbero portare a una situazione ancor più critica di cinquant’anni fa. Innanzi tutto, se il prezzo del petrolio è aumentato oggi meno di allora, altre materie prime, fra cui il gas, hanno subito incrementi fino a cinque e dieci volte (Credit Suisse). Inoltre, dagli anni Settanta, il commercio internazionale è aumentato dal 25% al 50% del PIL mondiale (Banca Mondiale): la crescente integrazione delle catene del valore e la diffusione di sistemi di produzione di consegna just-in-time rendono l’economia globale più fragile di fronte all’incremento dei prezzi dei beni primari. Quel che è peggio, oggi lo shock arriva non dopo “trent’anni gloriosi” di miracoli economici e di prosperità diffusa, bensì dopo quindici anni di “stagnazione secolare” funestati da numerosi altri accidenti, dalla crisi finanziaria alla pandemia (ISPI).
Alcuni osservatori hanno suggerito che oggi le spinte inflative potrebbero essere frenate dal differente quadro di politiche e istituzioni in cui avviene l’aumento dei costi energetici. Il mercato del lavoro è meno propenso a tradurre quest’ultimo in un incremento generalizzato dei prezzi (Russel Investment): i sindacati sono oggi più deboli e non esistono forme di indicizzazione dei salari volte a preservarne il potere d’acquisto (tipo “scala mobile”). Viceversa, le banche centrali appaiono oggi più forti: sono spesso dotate di un mandato esplicito a tenere sotto controllo l’inflazione e hanno guadagnato in decenni di “grande moderazione” una solida credibilità nella loro capacità di ottemperare al loro compito (Blanchard).
È opportuno subito precisare, però, che queste ultime sono buone notizie solo per una parte del sistema economico: se volessimo riesumare categorie degli anni Settanta, potremmo dire che favoriscono il capitale contro il lavoro. Ora, il fatto che gli eventi degli ultimi cinquant’anni abbiano stemperato la lotta fra classi, rendendo più difficile l’arruolamento nell’una o nell’altra, non deve impedire di valutare gli effetti di inflazione e contromisure, sulla distribuzione “funzionale” del reddito, fra salari profitti e rendite:
se ciascuno di noi, in quanto investitore e consumatore, è danneggiato dall’inflazione, ciascuno di noi, in quanto produttore e lavoratore, è danneggiato dal fatto che le spinte inflative provenienti da un incremento dei prezzi delle materie prime siano contrastate attraverso un blocco dei salari o un rialzo dei tassi d’interesse.
Il che mi porta, in conclusione, a quella che mi pare l’analogia più rilevante con gli anni Settanta che rischia di passare inosservata. Allora come oggi, l’inflazione ha origini monetarie. Nel 1971, la sospensione della convertibilità del dollaro in oro da parte del presidente Nixon inaugurò un regime di moneta fiduciaria che può essere creata dalle banche centrali senza restrizioni; e la sovrabbondanza di denaro produsse fatalmente un incremento di prezzi, a partire dalle merci più scarse, ossia dalle materie prime. Proprio il potere di creare denaro senza limiti ha consentito alle banche centrali, negli ultimi decenni, di operare come fonte di liquidità per affrontare qualunque emergenza, dalla crisi finanziaria globale, alla pandemia, alla guerra. E questa sovrabbondanza di denaro non ha creato sinora un incremento dei prezzi al consumo, solo perché la liquidità non è immessa dalle banche centrali sui mercati rionali, ma sui mercati finanziari – e lì produce i suoi effetti inflativi, almeno finché non rifluisce altrove.
Dire che l’inflazione ha origini monetarie non significa dire che i prezzi aumentano perché c’è troppa moneta, ma che alcuni prezzi aumentano perché il denaro circola nei luoghi sbagliati. Combattere gli effetti sperequativi dell’inflazione richiede di affinare gli strumenti della politica monetaria, e il suo coordinamento con la politica fiscale, per far arrivare il denaro dove serve, a servizio dell’impresa e del lavoro, e non in sterili circuiti finanziari, dai quali è sempre pronta a riversarsi sui mercati delle materie prime.