E’ ampiamente riconosciuto che i luoghi di lavoro e le organizzazioni odierne si caratterizzano per una forte e pervasiva competizione e per processi di cambiamento che sono sempre più accelerati e continui. In queste condizioni ai lavoratori è richiesta iniziativa, presa di decisioni complesse, coinvolgimento e dedizione assoluta al lavoro. Tutto ciò, accoppiato alla disponibilità di nuove teconologie dell’informazione e della comunicazione che rendono possible lavorare da ogni luogo e a qualsiasi ora – facilitando lo sconfinamento del lavoro in luoghi e tempi solitamente riservati alle attività extralavorative – ha significativamente accresciuto il rischio di un investimento eccessivo e disfunzionale nel lavoro.
Un numero crescente di studi e ricerche hanno documentato l’esistenza di una famiglia di disturbi chiamati “overwork-related disorders”, ossia disturbi da superlavoro (Lin et al., 2017; Yamamouchi et al., 2017*), i quali includono sia problematiche di tipo psicologico (depressione, burnout) che fisico (malattia cardiovascolare e cerebrovascolare), inclusa nei casi estremi la morte da superlavoro. Queste problematiche non sono così lontane dalla nostra realtà: la Corte di Cassazione ha riconosciuto che la morte di un radiologo di 34 anni avvenuta in Sicilia diversi anni fa è stata determinata prioritariamente dall’eccesso di lavoro, legato ai turni estenuanti a cui il giovane era sottoposto per sopperire alla carenza cronica di personale nella struttura.
Il workaholismo o dipendenza da lavoro è una forma patologica di superlavoro che si manifesta con una serie di comportamenti, cognizioni e stati affettivi che accrescono nell’individuo il rischio di riportare i disturbi da superlavoro. I segnali di riconoscimento del workaholismo sono diversi: lavorare costantemente ben oltre il normale orario di lavoro, portarsi i compiti da terminare a casa e dedicarsi ad essi la sera quando gli altri fanno altro o sono andati a letto, lavorare nei fine settimana, rietenere che non si possa staccare per essere un buon lavoratore e che tutte le incombenze debbano essere gestite senza imperfezioni, sentirsi in colpa quando si prende del tempo libero dal lavoro. Il problema riguarda nella sostanza una vera e propria ossessione per il lavoro, in cui l’individuo pensa costantemente al lavoro e con ciò ha difficoltà a staccarsi da esso anche se riconosce che il comportamento adottato può essere nocivo per la salute.
Il workaholism è diverso da una sano coinvolgimento nel lavoro (work engagement), in cui l’individuo è sì preso dal lavoro e lavora molto, ma non lo fa perché non riesce a staccare a causa di un impulso interno incontrollabile, quanto per la ragione che il lavoro è fonte di piacere e emozioni positive come entusiasmo e soddisfazione. Queste ultime, invece, più raramente sono provate dal workaholista e la loro esperienza decresce man mano che il problema avanza.
I motivi per cui un individuo lavora molto possono essere diversi. Un ruolo di responsabilità, le ambizioni personali e il desiderio di riuscire in quello che si fa giocano un ruolo importante, ma questi aspetti non sono elementi ‘malati’ in sé’: il desiderio di affermarsi professionalmente è ‘sano’ dal punto di vista psicologico. Anche i problemi famigliari possono spingere un individuo a trovare compensazioni nel lavoro, ma da soli difficilmente rendono la persona un workaholic. Si ritiene invece che tra gli antecedenti del fenomeno vi siano principalmente tratti caratteriali di vulnerabilità (aspetti nevrotici e ossessivi e tendenze al perfezionismo) che ‘incontrano’ ambienti di lavoro o lavori in cui prevalgono ritmi intensi e carichi cronicamente elevati, una cultura competitiva che rinforza e premia il superlavoro, dei superiori essi stessi superlavoratori e che con il loro comportamento lo rendono la normalità. E’ chiaro che le condizioni ambientali del workaholismo sono oggi molto diffuse nelle organizzazioni.
La dinamica che danneggia la salute nel workaholismo è ben conosciuta e ha a che fare con il sacrificio progressivo degli spazi e dei tempi di recupero (recovery). Il recupero riguarda la distensione dei sistemi psicofisiologici attivati e sollecitati durante il lavoro al fine di un loro ritorno a livello ‘basale’. Soggettivamente l’esperienza è quella del rilassamento. Il recupero è fondamentale sia durante, che dopo una giornata di lavoro. Durante il lavoro i brevi ‘stacchi’ dopo periodo di sforzi e concentrazione intensa – una pausa caffè, una battuta con un collega o semplicemente il passaggio ad un’attività meno impegnativa – consentono una momentanea distensione che favorisce il mantenimento del benessere e della prestazione. Dopo il lavoro, invece, lo stacco serale e il fondamentale sonno notturno consentono il pieno recupero. In questo modo il giorno successivo si è in grado di ripartire con il solito vigore dopo aver ripristinato le proprie risorse fisiche e psicologiche.
Nel workaholismo risulta ostacolato sia il recupero durante il lavoro che soprattutto quello dopo il lavoro. Durante il lavoro il workaholista è totalmente preso dalle attività e con ciò non concepisce momenti di stacco, che peraltro non riesce a concedersi perché incompatibili con i suoi standard interni. Dopo il lavoro, invece, il workaholista spesso continua a lavorare, portandosi le incombenze a casa e dedicandosi ad esse dopo cena fino a notte ‘fonda’. Inoltre, si concede vacanze minimali, durante le quali non stacca mai completamente con il lavoro, divenuto il baricentro assoluto della sua vita. Ne consegue che il recupero completo non si verifica mai e alla lunga le conseguenze di una tale carenza si fanno sentire sia sulla salute che sulla prestazione lavorativa.
Alla luce di quanto detto risulta davvero importante riuscire ad evitare che la sfera lavorativa si estenda a dismisura erodendo gli spazi e i tempi della vita extralavorativa. Occorre che tutti, per quanto il lavoro svolto sia importante e di responsabilità, trovino il tempo per staccare la spina e dedicarsi a coltivare attività extralavorative soggettivamente piacevoli. Queste permettono la forma più efficace del recupero, ossia quello attivo, che consiste nel condurre attività come hobby, sport, incontrare amici e in generale svagarsi.
Le organizzazioni lavorative dovrebbero incentivare l’equilibrio tra la vita lavorativa e quella extralavorativa anche dei loro manager, il cui stile comportamentale influenza quello dei collaboratori. Un manager workaholista alla lunga brucia sé stesso e i propri collaboratori. Chi ricopre incarichi di responsabilità dovrebbe inoltre essere formato sull’importanza di adottare degli stili di leadership che siano family friendly, ossia inclini alla conciliazione vita lavoro, piuttosto che improntati al superlavoro. Queste iniziative garantiscono alle organizzazioni di mantenere la propria forza lavoro in salute e vitale. Chi sperimenta una difficoltà significativa a staccare con il lavoro, dovrebbe invece confrontarsi dapprima con i propri famigliari per avere qualche riscontro esterno rispetto alla propria difficoltà e in seconda istanza chiedere un aiuto qualificato, al fine di evitare in tempo di imboccare il tunnel del workaolismo.