Un presidente pellegrino di pace e pioniere su un continente alla deriva
di Erica Grossi
per l’approfondimento Cittadini del mondo
«Ci dovrebbe essere una pace senza vittoria…
solo una pace fra uguali alla fine
può durare.»
Woodrow Wilson
Tra l’effettivo intervento in guerra delle truppe americane nel novembre 1917 e la firma della «resa senza condizioni» tedesca l’anno successivo (Compiègne, 11/11/1918 –11h00), sono circa due milioni i soldati statunitensi presenti sul territorio europeo. L’America, insomma, ha già conquistato le coste del vecchio continente quando nel gennaio del 1919, il presidente americano Woodrow Wilson sbarca in Europa per iniziare il giro di consultazioni diplomatiche che orienteranno la definizione degli accordi di Versailles (giugno 1919).
È in questo senso che Wilson, il primo presidente americano ad allontanarsi dal Paese a mandato in corso, arrivando in Europa sancisce un passaggio epocale, non soltanto sul piano del monopolio statunitense sulla conduzione e risoluzione delle guerre nel «secolo breve» dei conflitti in giro per il mondo. L’arrivo di Wilson sul suolo europeo contribuisce in modo importante alla popolarizzazione e pubblicizzazione della politica sulla larga scala delle società di massa e delle questioni geopolitiche internazionali. La versione wilsoniana del viaggio in Europa materializza e spettacolarizza nella persona del presidente pellegrino della pace – è a Wilson che si deve il progetto di una Società delle Nazioni – il peso dei cambiamenti sulla carta strategica del vecchio continente. Per la prima volta, un’autorità extraeuropea,attraversando le strade affollate delle maggiori città europee e poi le stanze delle diplomazie ufficiali,segna l’affermazione pubblica di un nuovo«corpo del re». Non più la vecchia, europea, monarchica e sacralizzata autorità imperscrutabile, ma un nuovo, mediatico, fotografatissimo personaggio pubblico, la cui retorica internazionalista fa delle masse il primo, più diretto interlocutore.
All’internazionalizzazione dell’equilibrio strategico europeo – o meglio, al monopolio esternalizzato della carta di demarcazione europea – corrisponde la trasformazione delle stesse pratiche e manifestazioni del potere politico nella direzione di una popolarizzazione e mediatizzazione dello spazio pubblico.
Sfogliando le pagine dei maggiori periodici illustrati dell’epoca, si rileva che prima ancora di accendere i fronti contrapposti del dibattito intorno alle risoluzioni del conflitto, la persona fisica di Wilson di passaggio nelle città europee alimenta nuovi immaginari e rappresentazioni del potere, affollando quelle che presto saranno le piazze acclamanti un altro e più estetizzato corpo, quello del duce. Di Wilson si conosce perfino la vita privata e lo stato di salute – si sa che soffre di una grave malattia cerebrovascolare che gli ha causato diversi colpi apoplettici e una cecità ricorrente all’occhio sinistro. Di lui circolano ritratti che lo rendono riconoscibile, lo familiarizzano grazie anche a compositi reportage divulgati dai periodici, e ai volumi a lui dedicati editi già a ridosso della fine del conflitto.
«Contro il nuovissimo flagello, nessun uomo, nessuna autorità, nessun partito ha saputo premunirci, né darci la salvezza, finché laggiù, nella non ignota America, un altro uomo [l’altro è il Kaiser tedesco] si è levato, Wilson [sic].»[L’Illustrazione Italiana, 5 gennaio 1919]. Dunque, né eroe dannunziano delle folle, né autorità reale, e neppure rappresentante del più recente strumento politico e democratico, il partito politico moderno. Ma«un altro uomo», un uomo pubblico che rivolge il suo discorso direttamente alle «masse silenti» e addolorate dell’Europa che ha contribuito a pacificare, con la promessa di un mondo più «vivibile e sicuro» sotto la guida morale degli Stati Uniti.
È lo stesso Wilson che, tanto nella politica interna di orientamento progressista quanto in quella estera di stampo internazionalista, lavora per alfabetizzarsi all’interpretazione dell’umore della popolazione, una pratica che gli sarà estremamente utile sul piano dell’affermazione pubblica, ma pure di grande ostacolo su quello strettamente strategico e diplomatico.
Quando, infatti, la sua carrozza attraversa le strade di Roma, Milano, Torino, Londra e Parigi, accolta festosamente dalla gente, i Quattordici Punti di ridefinizione della carta geopolitica europea hanno già subito diversi contraccolpi e riduzioni da parte della Realpolitik delle Potenze Associate, in particolare, Gran Bretagna e Francia. Mentre a stare stretta al Senato americano a maggioranza repubblicana è la clausola dell’interferenza della Società delle Nazioni negli affari interni degli Stati associati per via delle stesse aspirazioni extranazionali degli Stati Uniti. Più del principio di autodeterminazione dei popoli e della fine della segretezza diplomatica, sono le proposte sul libero commercio, sulla riduzione generale degli armamenti e sul ridimensionamento delle riparazioni imposte alla Germania, a trovare l’opposizione delle vecchie potenze europee.
In entrambi i casi sono le aspirazioni extranazionali a tenere banco e a orientare il nuovo assetto geopolitico uscito dalla catastrofe europea appena conclusa. Paradossalmente, cioè, quel capo d’accusa rivolto all’imputato tedesco – di essere colpevole della volontà di annessione arbitraria di nuovi territori – rappresenta l’unico denominatore comune delle aspirazioni sottese alle negoziazioni delle potenze giudicanti. Il viaggio del presidente americano, vestito da pioniere nella terra dei vinti per una «pace senza vincitori», è uno degli esempi più efficaci della logica propria alla macchina mediatica del discorso politico, il cui slogan pubblicitario/elettorale reciterebbe, aggiornandola morale della Favola delle Api di Mandeville al secolo dei conflitti globali: «intese private, pubblici trattati».
Erica Grossi
Ricercatrice del progetto “La Grande Trasformazione 1914-1918”