Di seguito, il terzo articolo del percorso Chi decide della politica?
Oggigiorno le principali decisioni politiche sembrano venire prese in altre sedi rispetto ai luoghi preposti: più che i congressi, sono sempre più decisivi i tweet, le dichiarazioni a stampa, le interviste televisive, così come le dirette Facebook. Probabilmente, questo andamento, che segna in particolare il panorama politico italiano, è da collegare alla disarticolazione dei corpi intermedi, alla loro perdita di centralità nel discorso pubblico-politico e alla progressiva sparizione dei partiti di massa dalla scena politica.
Nell’epoca dei partiti di massa, la linea politica e le misure programmatiche venivano discusse ed elaborate nel Congresso nazionale. In questo senso, il V Congresso nazionale del Partito Comunista Italiano (Roma, 29 dicembre 1945 – 6 gennaio 1946) offre un’interessante conferma. Per il PCI, uscito dalla Seconda guerra mondiale come un “partito nuovo” rispetto al Pcd’I sorto nel 1921,[1] si trattava, infatti, di fissare la linea d’azione e di delineare la struttura partitica in una fase transitoria per l’Italia del dopoguerra: Liberazione dai nazifascisti avvenuta, ma non ancora aperta la fase costituente e, soprattutto, non ancora risolta la diatriba tra monarchia e repubblica.
Fu proprio in quel Congresso – ben sette giorni di discussione rispetto alle convention odierne che, spesso e volentieri, occupano al massimo due giorni – che Palmiro Togliatti tracciò la linea poi seguita dal partito da lui diretto sia nella campagna elettorale per l’Assemblea costituente, sia nella redazione della Costituzione. Rifiutando in senso generale qualsiasi “salto in avanti” di matrice rivoluzionaria e schierandosi a favore dell’opzione repubblicana – una scelta non scontata vista la presenza di frange “rivoluzionarie” nel corpo del partito – Togliatti propose di schierare il PCI a favore della nascita una «repubblica democratica di lavoratori», in cui «libertà di parola, di stampa, di coscienza, di organizzazione economica e politica» raffiguravano quali diritti imprescindibili[2]. Ma la democrazia italiana non poteva diventare «una democrazia qualsivoglia»: avrebbe dovuto avere «un contenuto di trasformazioni economiche molto precise», motivate dall’«alto grado di coscienza politica e di organizzazione» raggiunto dalle classi lavoratrici. L’unica scelta plausibile era l’opzione repubblicana perché avrebbe consentito all’Italia, devastata dal ventennio fascista e dalla guerra mondiale, di realizzare, a fronte dell’arretratezza e povertà del paese dal punto di vista economico e civile, «tutte le riforme di contenuto sociale […] col rispetto del metodo democratico»[3], necessarie a «dare al popolo maggior benessere»[4].
La linea politica del “partito nuovo” si poteva intravvedere anche nella revisione statutaria, approvata sempre nel corso del V Congresso. Mentre al giorno d’oggi lo statuto, la “costituzione del partito”, viene spesso considerato un elemento secondario e, in certi casi, anche un fardello di cui fare volentieri a meno, nell’età dei partiti di massa rappresentava un’effettiva prospettiva politica.
Se si prende, per esempio, il primo articolo dello statuto che il PCI approvò in quelle giornate congressuali, se ne coglie la conferma: da partito di massa, il Partito comunista non solo si proponeva sulla scena politica nazionale come «l’organizzazione politica dei lavoratori italiani», ma si prefiggeva di affiancarli e di guidarli nella lotta «per la distruzione di ogni residuo del fascismo, per l’indipendenza e la libertà del paese, per la edificazione di un regime democratico e progressivo, per la pace tra i popoli, per il rinnovamento socialista della società». Anche il secondo articolo del nuovo statuto è in questo senso esaustivo. Introdotto su proposta diretta di Togliatti, il secondo articolo del nuovo statuto chiariva invece i passaggi per iscriversi al PCI: l’adesione sarebbe dovuta avvenire sulla base dell’accettazione del programma politico, «indipendentemente dalla razza, fede religiosa e dalla convinzioni filosofiche»[5]. Con ciò significava che, pur considerando il marxismo-leninismo l’ideologia di riferimento del PCI, l’ingresso nel partito non veniva precluso a quei militanti che si rifacevano a diverse concezioni filosofiche o religiose. Certo, questo punto era certamente funzionale al proposito di accogliere, tra le fila comuniste, quei cattolici, da Franco Rodano a Felice Balbo a Mario Motta, che sul finire del 1945 avevano abbandonato il morente Partito della sinistra cristiana. In realtà, si trattava di un’indicazione che consentiva al PCI di presentarsi comunque come una forza aperta e per certi versi plurale.
Ad ulteriore conferma dell’importanza del momento congressuale nel processo di elaborazione politica, il V Congresso, che riconfermò Togliatti alla segreteria, avrebbe lasciato una lunghissima impronta sulle prospettiva del PCI. Pur trattandosi di un partito legato all’Unione Sovietica, il solo paese dove aveva preso piede «l’inizio di una nuova civiltà non più basata sull’egoismo di gruppi privilegiati»[6], voleva essere un protagonista all’interno del nuovo ordine democratico e repubblicano dell’Italia nuovamente libera, proponendosi come «un’arma al servizio della causa della nazione italiana», che grazie al PCI poteva risorgere «come nazione indipendente, moralmente e politicamente unita, organizzata solidamente attorno a una nuova classe dirigente […] in marcia verso nuove mete di progresso»[7].
Per approfondire, scarica la fonte tratta dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli,
Rinascita gennaio/febbraio 1946
[1] In primo luogo, la nuova denominazione di Partito Comunista Italiano rispetto a Partito Comunista d’Italia – sezione della Terza Internazionale illustrava il processo di nazionalizzazione ricercato dal PCI. In secondo, il carattere effettivamente di massa dimostrato dagli oltre 1.700.000 iscritti. In terzo, l’accettazione generale del sistema democratico al posto dell’opzione rivoluzionaria. In quarto ed ultimo, il fine dell’Assemblea costituente rispetto alla presa del potere immediata.
[2] P. Togliatti, “Rinnovare l’Italia”, in Da Gramsci a Berlinguer. La via italiana al socialismo attraverso i congressi del Partito comunista italiano, vol. II, 1944-1955, Edizioni del Calendario, Venezia, 1985, p. 107.
[3] Ivi, p. 108.
[4] Ivi, p. 109.
[5] R. Martinelli, “Gli statuti del PCI. 1921/1979”, in M. Ilardi, A. Accornero (a cura di), Il Partito comunista italiano. Struttura e storia dell’organizzazione 1921/1979, Annali. Anno Ventunesimo 1981, Feltrinelli Editore, Milano, 1982, p. 68.
[6] P. Togliatti, “Rinnovare l’Italia”, in Da Gramsci a Berlinguer. La via italiana al socialismo attraverso i congressi del Partito comunista italiano, vol. II, 1944-1955, Edizioni del Calendario, Venezia, 1985, p. 108.
[7] P. Togliatti, “Conclusioni”, ivi, p. 218