Non solo storia – Calendario Civile \ #28maggio 1961


Nel 1961 quelle due parole non esistevano, se non separate, e dunque Peter Benenson non si rese conto il 28 maggio di quell’anno di aver dato vita a un “social network”.

L’avvocato inglese che leggeva e metteva da parte storie di repressione di dissidenti si dette l’obiettivo di collegare persone in ogni parte del mondo e farle agire contemporaneamente per una causa: la liberazione dei “prigionieri di coscienza”, le persone incarcerate solo per aver espresso le loro opinioni, esercitato il loro credo religioso, aver promosso i diritti.

L’idea era semplice: trasformare la frustrazione individuale in un’espressione d’indignazione globale. L’obiettivo era concreto: tirar fuori dalle prigioni coloro che non avrebbero mai dovuto mettervi piede. Lo strumento era paziente e tenace: scrivere lettere ai governi che tenevano in carcere i “prigionieri di coscienza”.

A unire persone di orientamento politico, fede, estrazione sociale diversi – allora, qualche migliaio; oggi, oltre dieci milioni – era, e sarebbe stato da allora, un principio inderogabile:

non si va in galera per le idee, a condizione che siano state portate avanti senza usare né invocare la violenza.

I primi appelli in favore della scarcerazione dei “prigionieri di coscienza” dettero risultati sopra alle aspettative: capi di stato e di governo ricevevano migliaia di lettere, persone fino ad allora languenti e dimenticate nelle strutture detentive di ogni parte del mondo diventavano improvvisamente famose e uscivano dalle loro celle con buste di plastica, sacchi di juta, valige e altro ancora contenenti le lettere scritte in loro favore, sotto lo sguardo incredulo di guardie penitenziarie e direttori che si chiedevano come mai quei detenuti sconosciuti fossero popolari in tutto il mondo.

In società fortemente ideologizzate, quella “strana creazione” di Peter Benenson veniva vista con sospetto: come si poteva chiedere contemporaneamente la scarcerazione di un prete in Vietnam e di un sindacalista in Guatemala, di un dissidente in Unione Sovietica e di uno studente nella Grecia dei colonnelli? Quel principio inderogabile secondo il quale per le tue idee non puoi andare in galera, davvero non poteva conoscere delle deroghe?

La risposta di Amnesty International era sempre la stessa:

i diritti non sono negoziabili e non possono essere subordinati a stati di necessità, a convenienze politiche e ad altre eccezioni.

A poco a poco, i principi inderogabili del “social network” fondato da Peter Benenson aumentarono. I successivi furono questi: il corpo delle persone è inviolabile; qualunque sia il reato commesso, la risposta dello stato non dev’essere uguale né tantomeno peggiore.

Fu così che negli anni Settanta e Ottanta Amnesty International avviò due campagne permanenti: per l’abolizione della tortura e della pena di morte. 

Ma già in quei decenni emergevano due nuove strategie repressive: i dissidenti non venivano solo imprigionati ma venivano fatti sparire o uccisi al di fuori di ogni procedura legale. Amnesty International divenne nota nel mondo per la campagna contro le “sparizioni forzate” in America del Sud, soprattutto quella sui desaparecidos argentini in occasione del Campionato mondiale di calcio disputato in Argentina nel 1978.

Negli ultimi due decenni dello scorso secolo, mentre la sua presenza cresceva anche nel Sud del mondo, Amnesty International proseguì ad ampliare il proprio “mandato” in tre direzioni: inizialmente, includendo nella definizione di “prigionieri di coscienza” la persecuzione per motivi etnici o di orientamento sessuale.

Fu all’inizio degli anni Novanta, attraverso appassionati e complessi dibattiti nel Congresso mondiale tra i delegati di tutte le sezioni di Amnesty International, che emerse l’ambizione di occuparsi dei diritti della maggioranza del pianeta. Da quei dibattiti nacquero le campagne per i diritti delle donne e dei rifugiati e, all’inizio di questo secolo, quelle per l’affermazione dei diritti sociali ed economici (alloggio, acqua, cibo, condizioni lavorative, salute ecc.).

Quel decennio terribile, iniziato con l’invasione del Kuwait e terminato con la guerra per il Kosovo e segnato da due genocidi (nel 1994 in Ruanda e nel 1995 in Bosnia) fece capire ad Amnesty International che il suo compito non poteva essere solo quello di agire in tempo di pace. Per quanto paradossale potesse apparire, anche in guerra c’erano delle leggi da rispettare. La nuova bussola di Amnesty International, accanto al diritto internazionale dei diritti umani, divenne il diritto internazionale umanitario. 

Poi arrivò l’anno spartiacque, il 2001. 

Il giorno dopo gli spaventosi crimini contro le Torri gemelle dell’11 settembre, furono in molti a dire ad Amnesty International che i tempi erano cambiati, che il cammino dei diritti – iniziato il 10 dicembre 1948 con la proclamazione della Dichiarazione universale dei diritti umani – si era interrotto, che l’associazione non serviva più, ridotta a un ruolo irrilevante o, peggio, di complicità col terrorismo. 

Un funzionario dell’amministrazione Usa dell’epoca, durante un incontro, disse a una delegazione di Amnesty International: “Da adesso, ci togliamo i guanti”.

In nome della “guerra al terrore”, da combattere “senza guanti” contro il terrorismo globale, sembrò che tutto potesse diventare lecito, a partire dal terrore di stato. Autorevoli editorialisti scrissero che sarebbe stato necessario rilegittimare la tortura. S’impose un pericoloso paradigma: meno diritti, più sicurezza.

Divenne popolare una narrazione altrettanto pericolosa: i diritti non sono innati né per tutti, si meritano comportandosi bene. Di voce in voce, di tastiera in tastiera, l’equazione musulmano uguale terrorista si affermò come la più incontestabile delle verità.

Scorie di quel paradigma e di quella narrazione sopravvivono ancora oggi, nelle politiche securitarie, nell’odio contro la “minaccia” dei migranti, nella criminalizzazione della solidarietà.

Ma torniamo al 2001. Neanche due mesi prima delle Torri Gemelle, a Genova accadde qualcosa di terribile e, auspicabilmente, di irripetibile. Non fu più possibile sostenere che le violazioni dei diritti umani fossero qualcosa che accadeva altrove. Accadde qui, in Italia, quando alla fine del G8 si contarono un manifestante ucciso, quasi un centinaio di feriti in strada o a seguito del pestaggio alla scuola Diaz e oltre duecento persone trattenute per giorni nella caserma di Bolzaneto, senza contatti col mondo esterno e sottoposte a torture.

A quelle autorità italiane cui chiedeva di occuparsi di casi di violazione dei diritti umani negli Usa, in Cina e in Russia, Amnesty International ora sollecitava assunzione di responsabilità, accertamento della verità, giustizia e leggi adeguate a evitare il ripetersi di quanto accaduto nel luglio 2001, nel capoluogo ligure.

Emerse in tutta evidenza che nei codici italiani mancavano delle norme atte a tutelare i diritti umani e a punire in modo adeguato le violazioni: prima tra tutte, una legge sul reato di tortura. 

Dalla ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, pubblicata nella Gazzetta ufficiale all’inizio del 1989, ci sono voluti quasi 28 anni perché, nel luglio 2017, quella legge venisse finalmente introdotta. Mentre, a 20 anni dai fatti di Genova, manca ancora la legge sui codici identificativi per le forze di polizia in servizio di ordine pubblico. Segnali, questi, dell’estrema lentezza con cui cerca di affermarsi, all’interno delle istituzioni italiane, una vera e propria cultura dei diritti.

Tra i primi “prigionieri di coscienza” di cui si occupò Amnesty International vi fu un gruppo di studenti arrestati in Portogallo, sotto la dittatura di Salazar, per aver brindato alla libertà. Tra gli ultimi vi è Patrick Zaki, ricercatore sui diritti umani arrestato l’8 febbraio 2020 in Egitto. 

In mezzo, oltre 50.000 “prigionieri di coscienza” che Amnesty International ha contribuito a liberare. Il “social network” fondato nel 1961 da Peter Benenson funziona ancora.

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