Se l’inflazione si mangia il carrello della spesa, il cittadino dovrà rinunciare a qualcosa. Sarebbe bello se un misterioso prode apparisse dal nulla a “salvare” il nostro potere d’acquisto ma va da sé che ciò non accade e ci si avvia verso casa con un sacchetto più leggero. A meno che non si sia una banca.
In questo caso, infatti, un salvatore con un portafoglio ben fornito appare sistematicamente sulla scena. Viene da chiedersi perché, in questa crisi, e da entrambe le sponde dell’Atlantico, in un modo o nell’altro ciò sia avvenuto di nuovo.
Una premessa; in condizioni normali, le banche fanno grassi profitti quando i tassi di interesse si alzano. La cartina tornasole è data dall’andamento degli indici di borsa del settore, che hanno avuto crescite stellari negli ultimi mesi. La ragione è semplice: i tassi sui depositi per la clientela vengono aggiornati con scaltra lentezza, mentre quelli sui prestiti si adeguano con rapida sollecitudine. Il risultato è una crescita della forbice bancaria, che, almeno temporaneamente, aumenta i ricavi degli istituti di credito.
Tuttavia, anni di tassi di interesse vicini allo zero o addirittura negativi avevano creato una situazione del tutto particolare: una diffusa aspettativa che, contrariamente alla storia ed al buonsenso, il livello dei tassi sarebbe rimasto così depresso per un lasso di tempo prolungato, se non per sempre. Ciò ha indotto alcune banche – non tutte, è importante sottolinearlo: è stata una scelta di alcune – ad assumere specifiche posizioni finanziarie in bilancio, chiaramente con l’obiettivo di aumentare i ricavi, assumendosi rischi incrementali. Molti commentatori hanno descritto negli ultimi giorni le ragioni dietro il collasso di Silicon Valley Bank (SVB): alla voce “Attivo”, un ampio ammontare di titoli di stato (treasury bond) a lungo termine che si sono deprezzati a seguito dell’aumento dei tassi, a cui corrispondono, alla voce “Passivo”, depositi instabili, in primis perché, per definizione, i depositanti li possono ritirare in qualunque momento, e, in secundis, in quanto concentrati in un settore – le start up tecnologiche – che sta vivendo un arretramento economico.
Il risultato è un indebolimento della posizione di liquidità che, come accade tipicamente nelle corse agli sportelli, si è andato autoalimentando, peraltro ad un ritmo particolarmente accelerato da una base di depositanti poco diversificata e da voci divenute immediatamente virali su newsletter e chat del mondo delle imprese tecnologiche. Diversa, ma per molti versi parallela, la situazione di altre banche medie americane (fra le altre, Signature Bank e First Republic Bank) o di Credit Suisse. In questo ultimo caso, aggravata da un lungo periodo di errori gestionali e di investimenti errati, spesso con connotazione di opacità.
Va sottolineato che le più recenti crisi che hanno coinvolto le banche non sono legate all’aumento dei tassi di interesse operato dalle banche centrali in sé, ma dal fatto che le banche si fossero rese particolarmente vulnerabili a tali aumenti.
Le menzionate vicende bancarie hanno in comune l’intervento pubblico, che, in tutti i casi, ha assunto il carattere di straordinarietà. Nel caso di SVB, il regolatore americano ha esteso la garanzia sui depositi anche a quelli sopra i 250 mila dollari, livello sopra al quale non si è, in tempi normali, beneficiari della protezione (il limite equivalente, in Europa, è pari a 100 mila euro). Nel caso di Credit Suisse, è stata fornita una linea di liquidità dalla banca centrale svizzera della non banale cifra di 100 miliardi di franchi svizzeri, alla quale si aggiunge una garanzia sulle perdite pari a circa 9 miliardi da parte del governo; due fattori dirimenti affinché avvenisse il “salvataggio” (un eufemismo, viste le condizionalità) operato da UBS. Si dirà che con buona probabilità tali interventi costeranno ben poco al settore pubblico; e che il solo annuncio ha contribuito, almeno per il momento, a tranquillizzare i mercati e interrompere una spirale negativa che avrebbe potuto assumere dimensioni incontrollabili. Allo stesso tempo, tuttavia, va notato che in termini di dimensioni massime teoriche si tratta di cifre colossali: i soli depositi non garantiti di SVB, a cui si è estesa la copertura, ammontano a circa 175 miliardi. Se fosse necessario estenderla ad altre banche (come richiesto formalmente dall’associazione delle banche minori in USA, MSBC), la cifra diverrebbe rapidamente di un’entità molto rilevante.
Da quindici anni, a partire dalla crisi del 2008, si è detto “basta”. Mai più dispendiosi salvataggi con i soldi pubblici; mai più interventi a supporto di banche e banchieri avidi e propensi a prendere rischi eccessivi, tanto più quando, in fondo in fondo, sanno che ci penserà lo Stato a trarli di impaccio quando il tempo volgerà a tempesta.
Così l’evoluzione regolamentare degli ultimi anni si è mossa di conseguenza: il tema centrale è stato come accertarsi che, al pari di qualsiasi altra industria, le banche subiscano gli effetti (anche negativi) dei loro comportamenti ed i loro investitori siano tenuti a condividere le perdite subite.
Long story short: si è passati dal bail-out al bail-in. Il cambio di suffisso indica un’inversione di polarità: si è partiti dall’assunzione (spesso implicita) che le banche sono un oggetto troppo delicato da poter essere lasciato al suo destino e necessitano quindi, in modo semi-automatico, della garanzia di un intervento pubblico, ovvero il bail-out, il salvataggio (particolarmente per quelle grandi, per cui vige il principio too big to fail). Con il passare del tempo (e complici le plurime crisi), ci si è invece orientati verso l’introduzione di nuove norme e regolamentazioni, basate sul concetto di bail-in: cioè coinvolgimento, condivisione. In breve, si deve assicurare che in caso di perdite – anche di dimensioni tali da comportare la liquidazione di una banca – queste siano debitamente suddivise tra gli investitori che detengono fondi presso quell’istituto.
Per assicurare che le perdite siano allocate in modo opportuno e ordinato si è organizzata la struttura del passivo bancario secondo un waterfall, ovvero una cascata che definisce l’ordine secondo cui le perdite devono essere attribuite: per primi, naturalmente, gli azionisti (i.e., coloro che, ex ante, si erano assunti il rischio maggiore fra tutti gli investitori); per ultimi i depositanti, i quali, peraltro, se sotto i sopraccitati limiti prescritti, vengono rimborsati dalle assicurazioni sui depositi a carattere nazionale, che, quantomeno in teoria, sono finanziate secondo principi privatistici dalle banche stesse. In Europa, la direttiva europea BRRD (Bank Recovery and Resolution Directive) ha imposto tali princìpi, che sono via via divenuti standards universalmente accettati a livello internazionale.
Anche a livello politico si è optato per rifuggire dall’aiuto alle banche che, anche se solamente ventilato, ha l’effetto di affossare la popolarità del proponente: non a caso di recente negli Stati Uniti il presidente Biden ha ripetuto più volte, e con molta enfasi, che non avrebbe speso neppure un centesimo del budget federale per aiutare le banche. In realtà contraddicendosi parzialmente mentre lo diceva: l’aumento del limite sui depositi, oltre ad alcune facilitazioni alle banche per finanziare i loro attivi, apre di fatto ad un intervento pubblico. Non è difficile pensare che tale intervento sarebbe stato via via esteso se la crisi si fosse allargata.
La conclusione che se ne trae è che, nonostante nessuno lo voglia, è estremamente difficile lasciar fallire una banca. Lo si è fatto (giustamente) con il gigante delle cryptocurrency FTX. Ma per una banca vera è tutta un’altra cosa. Perché, dunque, le banche sono speciali? Le ragioni, semplificando un po’, sono due.
La prima, guardando specificamente ai depositi bancari, è la loro connessione con i sistemi di pagamento. Nel caso di SVB si è detto che la perdita dei depositi, anche di quelli molto grandi, avrebbe impedito il pagamento degli stipendi di molte società e causato l’interruzione di investimenti in corso in numerose iniziative imprenditoriali. Nella stragrande maggioranza dei casi si parla di depositi privi di intenti speculativi, legati a progettualità rilevanti per l’economia reale. Difficile pensare che, in questi casi, i depositanti possano svolgere analisi dettagliate sulla solvibilità della propria banca. In sostanza, sembra rispondere all’interesse pubblico che alcuni strumenti finanziari, anche di importi rilevanti, siano di per sé considerati al sicuro da perdite.
La seconda ragione riguarda le interconnessioni: le banche tendono a prestarsi fondi a vicenda, oltre che con altri operatori finanziari. Alcune di queste interdipendenze sono difficilmente misurabili e possono variare molto rapidamente, per esempio (ma non solo) quelle legate agli strumenti derivati. La crisi di una banca può quindi rapidamente trasferirsi ad un’altra. L’effetto contagio, una volta innescato, può essere difficile da fermare.
In sostanza anche il sistema capitalistico globalizzato e fortemente integrato si basa sulla presunzione di un intervento statale di ultima istanza. Si può forse aggiungere che gli ampi sforzi legislativi e regolamentari per ridurre la portata di tali interventi, per quanto condivisibili in principio, non hanno interamente riscontrato successo (nel caso di Credit Suisse, ad esempio, alle perdite imponenti subite dagli azionisti e a quelle totali di alcuni strumenti di capitale si è associata una garanzia pubblica su future perdite a favore del nuovo acquirente). Non solo nei casi recenti ma, per stare vicino a casa nostra, anche per le banche venete si è usata la legislazione nazionale invece della direttiva europea, di poco precedente, proprio per permette al governo di allora di utilizzare fondi pubblici con ampia disponibilità.
L’idea di una risoluzione delle crisi bancarie che non richieda un intervento pubblico è attraente per molte ragioni: per questioni di giustizia distributiva, naturalmente, onde evitare che i taxpayer coprano perdite di altri; per calcolo politico, vista l’impopolarità degli interventi di salvataggio (ma le perdite dei risparmiatori si rivelano spesso ancora più impopolari). Infine, per le banche stesse, che giustificano così la richiesta di una presenza regolamentare meno invasiva, se possono affermare che il sistema saprà autogestirsi in caso di crisi, senza trasferire le proprie difficoltà sulla collettività.
Sta forse qui la lezione degli ultimi giorni: lo era certamente in passato, ma anche oggigiorno rimane difficile, realisticamente, pensare che a fronte di una crisi bancaria si possa evitare un intervento pubblico di salvataggio. Gli strumenti di recente introduzione – il bail-in su tutti – hanno definito un metodo per assicurare che, almeno in parte, le eventuali perdite ricadano anche sugli investitori, in modo prevedibile ed ordinato. Ma di fronte al rischio di perdite diffuse ed indiscriminate che coinvolgono i depositanti, che possono riverberarsi sul sistema dei pagamenti, un intervento pubblico si è sempre dimostrato (e continua a dimostrarsi) nella realtà inevitabile. Vista la diagnosi, la prevenzione è l’arma più potente, ovvero una regolamentazione efficace, stringente e con maglie meno porose. La regolamentazione europea ha fatto passi avanti notevoli dall’introduzione dell’unione bancaria; senza dubbio si presenta oggi come uno standard mondiale di elevata qualità nella definizione di regole e nell’efficacia dei controlli. Si è peraltro resistito ai rinnovati cori delle sirene della deregolamentazione (che hanno portato all’indebolimento del Dodd-Frank Act[1] negli Stati Uniti). Tuttavia, il carattere ancora nazionale dell’assicurazione sui depositi e le maglie strettissime entro cui la normativa permette un intervento pubblico in caso di crisi bancarie, in assenza di un approccio sovranazionale, rappresentano elementi di debolezza che, alla prova dei fatti, potrebbero dimostrarsi esiziali.
[1] Il Dodd-Frank Act (o, per esteso, Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act) è un intervento di riforma voluto dall’allora Presidente americano Barack Obama in seguito alla crisi finanziaria del 2007-2008. L’obiettivo primario della legge era quello di migliorare la regolamentazione del sistema bancario americano. Viceversa, la legge che lo ha indebolito, voluta dal Presidente Donald Trump, è l’“Economic Growth, Regulatory Relief, and Consumer Protection Act”, introdotta nel 2018.