Per far fronte alla diffusione del Covid, nella primavera del 2020 la maggior parte degli Stati occidentali ha implementato rigide misure di distanziamento sociale. Senza misure ambiziose e di ampia portata, come ha sostenuto al tempo Mario Draghi, si sarebbe assistito al collasso del sistema produttivo. Allo stesso tempo quelle stesse necessarie misure hanno portato alla luce con forza le disuguaglianze presenti all’interno della nostra società.
Per molti non è stato un periodo di riconciliazione con il proprio lato privato. Se i più benestanti si sono potuti dedicare alla sperimentazione culinaria o allo yoga, le fasce più deboli della popolazione hanno passato il lockdown nell’incertezza economica, nelle loro case anguste, con connessioni internet scadenti e spesso prive dei mezzi necessari per accedere alla didattica a distanza.
Non sarà una palingenesi quella che scaturirà nel futuro post-Covid:
il risultato della pandemia, seppur non ancora determinato, sarà quello di catalizzare processi che erano già in essere.
Uno di questi è il cambio di paradigma a cui stiamo assistendo dopo la crisi del 2008, che ha in qualche modo messo alla luce le crepe dei dogmi che hanno contraddistinto le economie occidentali negli ultimi quaranta anni.
Sarebbe infatti errato considerare un’ideologia anti-Stato quello che viene chiamato neoliberismo – ma a cui ci riferiremo in questa sede come feticismo del mercato. Non esiste, al di fuori delle riflessioni di pochi, il puro libero mercato. Per sua natura, il mercato è sempre governato da regole. Il dogma del feticismo del mercato era invece l’idea che il mercato – con tutto quello che ne consegue – fosse superiore allo Stato. Pertanto, lo Stato doveva ridurre il suo perimetro, ragionare come fosse un’azienda, adottare e imporre i metodi del mercato laddove necessario.
Abbiamo quindi assistito a una liberalizzazione dei mercati finanziari, accompagnata da una maggior complessità dei prodotti di quei mercati. Abbiamo visto l’abbandono della politica industriale più dirigista. Abbiamo sentito ripetere infinite volte che il welfare state doveva non distorcere i meccanismi di mercato, anzi poteva essere, in qualche caso, rimpiazzato proprio dal privato.
Ciò ha portato non solo a una serie di crisi finanziarie (da quella del 2008 non ci siamo ancora ripresi del tutto), ma anche a maggiori disuguaglianze e una crescita più debole. Non a caso, come hanno evidenziato Piketty, Saez e altri, questa crescita ha giovato perlopiù ai più ricchi.
Ma la pandemia ha cambiato le carte in tavola, spazzando via l’idea che lo Stato debba semplicemente facilitare le dinamiche di mercato e arginarne i fallimenti. La corsa ai vaccini, ad esempio, ha messo in luce l’importanza di un ruolo attivo del settore pubblico in rapporto al privato. Senza il capitale pubblico e la ricerca decennale nei vaccini a mRNA, finanziata dall’agenzia federale statunitense NIH non saremmo arrivati a un vaccino così rapidamente.
A questo va aggiunto lo sforzo mastodontico che toccherà agli Stati per contrastare la crisi climatica. Non bastano politiche market based: la crisi climatica è un fenomeno complesso da gestire con politiche di command and control e con un ritorno sulla scena della politica industriale, come afferma Dani Rodrik.
D’altronde, le esperienze di questi ultimi anni mostrano come il potenziale dell’azione pubblica sia stato sottovalutato. A essere meno colpite dalla crisi del 2008 furono infatti quelle nazioni che avevano puntato su una politica industriale più interventista. E ciò è avvenuto anche durante la pandemia. L’esempio della Corea del Sud, che ha vissuto di decenni di politiche pubbliche ambiziose e di piani contro le epidemie sviluppati dopo la SARS, è incoraggiante. Tanto che John Van Reenen del MIT ha citato Cina e Corea del Sud come casi di studio interessanti per i cosiddetti mission oriented projects.
Come ha giustamente osservato Paolo Gerbaudo, però, il ritorno dello Stato può portare a esiti diversi fra loro. Non dobbiamo aspettarci necessariamente un’egemonia della sinistra e delle questioni sociali nella fase “neostatalista” che si sta aprendo.
In particolare, vi sono due aspetti su cui è necessario rivolgere l’attenzione.
Il primo è la valutazione e la concezione di Stato che abbiamo. Quella dominante attualmente è la teoria dei fallimenti di mercato, per cui lo Stato deve intervenire quando il mercato fallisce. Come ha fatto notare Mariana Mazzucato, questa è però una teoria statica. Al contrario, il capitalismo moderno è un processo dinamico trainato dalla distruzione creatrice, come diceva Schumpeter.
Un altro punto che la teoria dei fallimenti di mercato non considera è che il mercato, in quanto output istituzionale, nasce dall’interazione tra vari agenti: Stati, banche, aziende, organizzazione del terzo settore, cittadini, università, scuole, ospedali. Il focus deve quindi essere verso l’ecosistema formato da questi agenti, in un contesto dinamico lontano dall’equilibrio e caratterizzato da incertezza.
Il secondo aspetto da considerare riguarda la dimensione più strettamente istituzionale. Quali sono le regole del gioco, fissate dallo Stato, in grado di garantire una crescita inclusiva e sostenibile? In questi anni abbiamo assistito a una deregolamentazione del mondo del lavoro che ha portato a una penuria di good jobs. In che modo lo Stato può intervenire e garantire che questo non succeda? Un discorso simile vale per la tassazione, che in questi anni è diminuita quasi solo per i ceti più abbienti. E, che dire del welfare? Durante la pandemia abbiamo visto i limiti del new public management e di un approccio di mercato alla cosa pubblica.
Il ritorno dello Stato porta con sé anche dei rischi. Alcuni interessi potrebbero sfruttare il maggior ruolo dello Stato per tornaconti di fazione. Inoltre, si potrebbe sviluppare nuovamente un rapporto distorto fra politica e management pubblico, come in passato è già avvenuto in Italia.
Non ci è dato sapere se il cambio di paradigma durerà o si infrangerà contro le difficoltà dei prossimi anni – prima tra tutte l’inflazione. Ma la storia non è un corso determinato. Conta il motore politico, e quindi umano.
Ha scritto questo articolo Mattia Marasti di Kritica Economica.