Un fondo, quello che lo storico e documentarista Bruno Cartosio ha donato alla Fondazione Feltrinelli tra il 2018 e il 2019, da riscoprire. Oltre sessanta buste di documentazione sui temi studiati nella sua pluridecennale attività di ricerca sugli Stati Uniti, dagli anni Sessanta a oggi, e in alcune annate di periodici della controcultura americana.
Dalla questione razziale alla politica estera, dalle elezioni presidenziali all’emigrazione, dall’economia al sindacalismo. Negli archivi della Fondazione Feltrinelli, in viale Pasubio a Milano, anche i fascicoli di Ebony, settimanale illustrato di cultura afroamericana fondato nel 1945 da John H. Johnson e forte, negli anni Settanta, di quasi un milione e mezzo di lettori in tutto il mondo.
“Volevo capire cosa volesse dire essere afroamericano nella società statunitense. Quella stessa società che aveva avuto la schiavitù fino oltre la metà dell’Ottocento e che aveva poi vissuto la segregazione. Erano gli anni Sessanta, i miei interessi erano focalizzati inizialmente a capire la letteratura – poesie, saggistica, romanzi di scrittori come Richard Wright, James Baldwin, Ralph Ellison, LeRoi Jones. Sentivo, tuttavia, che avevo bisogno di lavorare molto di più sulla conoscenza storico-culturale. Dalle prime ricerche come studente universitario e dall’attenzione stimolata dalle proteste afroamericane, avevo capito che l’informazione disponibile in Italia sulla storia degli Stati Uniti era del tutto insufficiente. E allora andai, come altri della mia generazione, a scoprire l’America.”.
Di fronte a questa curiosità, a questa ricerca di fonti storiche, cosa decidesti di fare?
Fu un salto qualitativo: nel ‘69 sono andato per la prima volta negli Stati Uniti e per due anni ho lavorato all’Università McGill a Montreal, in Canada. Ho approfondito una parte dei discorsi sulla storia e letteratura afroamericana e mi sono avventurato sugli altri terreni più coerenti con i miei percorsi intellettuali, culturali e politici degli anni precedenti. Come, ad esempio, la Labor History, o come cominciavamo a definirla noi di quella generazione la “Working Class History”, cioè la storia della classe operaia, non soltanto delle sue organizzazioni. C’era naturalmente l’attenzione per la cronaca, che in quegli anni continuava a essere attraente. Il tentativo era di ovviare alle mancanze e superare la tante superficialità correnti.
Cosa si trova nel Fondo conservato negli archivi di Fondazione Feltrinelli?
Ho iniziato a collezionare materiali, recensioni, ritagli da giornali e da riviste e così via. Tutte cose che allora dovevano essere fatte sul posto e sulla materia bruta, perché non esisteva ancora internet. Si cercava, si trovava, si fotocopiava, si studiava, si mettevano note e commenti. Di ritorno dal Canada, tornai ogni anno negli Stati Uniti. Andavamo a scoprire l’America.
Molti di quei ritagli, di quelle riviste, di quei libri che portavo e che in genere portavamo indietro, derivavano da una raccolta fatta in modo onnivoro e spesso anche un po’ impreciso. In primis, era importante ritagliare e portare a casa, prima ancora di leggere a fondo e decidere quello che poi sarebbe stato archiviato. Andavamo a scoprire l’America, appunto, e molte cose erano importanti per ragioni diverse.
L’attenzione alla cronaca ti faceva percepire un’urgenza oltre che scientifica anche militante, da dedicare alla documentazione, al racconto e alla divulgazione, dando voce alle minoranze discriminate che lottavano per i diritti civili?
La categoria stessa di storia militante nacque ed ebbe la sua storia negli anni Settanta. Questo è stato sempre un aspetto per me inscindibile dal lavoro di ricerca in senso proprio. Non solo per me, naturalmente; pensavamo “il presente come storia”. Negli anni ‘70 e ‘80 esisteva una generazione di giovani storici e storiche che avevano dato una impronta decisa al proprio lavoro, cioè riportare alla luce o dare importanza a quelle componenti sociali che Gramsci aveva definito classi subalterne.
Del New Deal, ad esempio, si sapeva abbastanza, ma ciò che non si conosceva era cosa aveva voluto dire il New Deal per i gruppi di operai o di disoccupati, per le minoranze, per quelle persone costrette a migrare da uno Stato all’altro. Nella storiografia degli Stati Uniti queste cose erano entrate forse troppo poco, oppure si conoscevano attraverso film e romanzi come Furore di Steinbeck. Ad esempio, tutta la documentazione fotografica della Farm Security Administration, se si eccettuano poche immagini iconiche, la conoscevano soltanto pochi studiosi della fotografia. Quel tipo di materiale divenne patrimonio della storia sociale negli Stati Uniti – e in parte in Italia – proprio in quel periodo, gli anni d’oro della storia sociale e operaia.
Perché era necessario documentare e far conoscere questi temi soprattutto in un Paese come l’Italia?
Il rapporto tra il seguire gli avvenimenti giorno per giorno e il lavoro di ricerca era costantemente in tensione. Ovviamente i conflitti razziali erano al centro di questa storia, come lo erano nel quotidiano statunitense: la parte principale dei documenti raccolti era quella più lontana dalla nostra realtà, perché gli africani in Italia non c’erano ancora. Anche la storia operaia e delle città era profondamente diversa dalla nostra. Quel tipo di sollecitazioni, motivazioni, atteggiamenti, pregiudizi, dinamiche più o meno conflittuali non erano note, proprio per questo era importante informare. Poi che questa informazione riuscisse a viaggiare, a circolare e a lasciare qualche segno, era un altro discorso. Quel compito doveva essere assolto dalla stampa, che però non sempre aveva un’attenzione adeguata, ma c’erano altri giornali come Lotta continua o Il Manifesto e altri canali “di movimento” attraverso cui si poteva mettere in circolazione questa informazione, oltre che un’editoria allora sensibile a questi temi.
La “success story” di John Johnson, editore di Ebony e di Negro Digest, probabilmente un’esperienza irripetibile, è da considerare un punto di arrivo o di partenza per la formazione di una classe media afromericana?
Come succede spesso, il punto Il punto di arrivo diventa anche la piattaforma per una nuova partenza. Il percorso dell’editore Johnson è indicativo: la sua prima pubblicazione Negro Digest, nel ’42, è una pubblicazione mimetica rispetto al Reader’s Diges, che rappresentava la grande iniziativa della volgarizzazione e, in parte, della banalizzazione della cultura bianca dominante. L’idea base Negro Digest si concretizza veramente nel ’45, quando Johnson comincia a pubblicare Ebony, una rivista che fa di un pubblico nero scelto, il destinatario sociale e culturale della pubblicazione. Anche in questo caso ha un modello, la rivista Life che esiste da prima della Seconda guerra mondiale, nel formato della rivista di formato A4 del rotocalco, con un apparato fotografico e dei pezzi di illustrazione e di cronaca sociale. La caratteristica è quella di adottare questo modello e, di conseguenza, anche l’interlocutore e il destinatario.
Che tipo di prodotto editoriale è Ebony, da chi viene letto?
Il lettore di Ebony fa parte di quella società media, parzialmente acculturata, che ormai ha cominciato a esistere nelle metropoli e che si può, questa la scommessa di Johnson, ritenere destinataria e utilizzatrice di modelli coerenti di cultura, di un comportamento sociale. Ebony non è in nessun modo una pubblicazione di rottura dal punto di vista politico, è totalmente collocata dentro la medietà di una classe media nera da valorizzare. La possiamo, però, intendere come pubblicazione di rottura, nel senso che non esisteva una pubblicazione analoga prima del ‘45.
Su cosa poggia questa pubblicazione?
Su tutto quello che è successo nei venti anni precedenti, cioè nel periodo storico in cui nelle metropoli – come New York, St. Louis, Chicago, Kansas City e altre delle maggiori città – si forma un ceto intellettuale nero che riesce ad avere il proprio spazio e la propria legittimazione sul piano nazionale, grazie a romanzieri, poeti e poetesse, drammaturghi e drammaturghe.
Una cultura legittimata che esce dai canali ristretti del varietà nero, attraverso la letteratura, la saggistica sociale, sociologica e storiografica, attraverso la musica di grandi figure che in parte hanno già avuto e in parte avranno notorietà internazionale. Johnson è convinto che l’alta cultura nera meriti di essere evocata e fatta conoscere e trovare consumatori all’interno della stessa comunità nera.
Di chi parliamo? Qual è il ritratto tipo a cui Ebony si rivolge? Che gusti ha?
La componente della comunità nera a cui si rivolge è in grado di comprare dischi di musica non pop, ma jazz. Legge riviste, romanzi e libri di saggi, è in grado di dare vita a un consumo culturale “da classe media” e ha i soldi per comprare gli strumenti al servizio della propria cultura. Johnson fa una scommessa che sarà vincente: Ebony diventerà una specie di catalogo della cultura, delle letture, dei comportamenti sociali, dei modelli di abbigliamento, delle creme di bellezza, delle brillantine per i capelli del mondo “per bene” afroamericano – quello che Margo Jefferson chiamerà Negroland in una memoir di qualche anno fa.
Quindi non è eccessivo affermare che, in un ipotetico calendario civile della comunità afroamericana, il 1945 sia una data da ricordare.
Può essere da ricordare perché è il momento a partire dal quale la classe media nera si informa. Non dimentichiamo che ormai gli afroamericani rappresentano il 10% della popolazione, sono entrati nei comparti dell’industria e dei servizi delle metropoli, quindi hanno cominciato ad acquisire i soldi per accedere a modelli di comportamento e di consumi economicamente più impegnativi. Il 1945 può essere uno dei segnaposto degli inizi della identità della classe media nera.
Un autore disse una volta che quando un nero fa domande, inevitabilmente si tratta di domande radicali. Ebony non è radical, è la rappresentazione della medietà applicata alla comunità americana che però, pienamente consapevole che la società è divisa, vuole il suo spazio e riconoscimento sociale.
Ci sono mai state eccezioni?
Nel 1955, in un’altra pubblicazione sempre fondata da Johnson nel ‘51, che si chiamava Jet, rivista più di consumo e più convenzionale, accadde un fatto di enorme effetto che non aveva niente a che vedere con la classe media e con il ceto medio americano. L’editore decise di pubblicare le fotografie di Emmett Till, un ragazzino di 15 anni che era stato picchiato, evirato, ammazzato nel Mississippi per aver – forse – fischiato dietro a una donna bianca. Quando questo piccolo fu recuperato dalla pozza d’acqua nella quale era stato buttato, era talmente sfigurato che i responsabili della sua uccisione vennero assolti perché, dissero i giurati, non era certo che quel corpo fosse quello di Emmett.
Jet pubblicò un servizio con le fotografie del bambino nella bara aperta per gli occhi della popolazione nera di Chicago, dove era stato riportato per la sepoltura. Quel piccolo caso editoriale creò enorme scandalo negli Stati Uniti (cui fece seguito quello dell’assoluzione degli assassini). Quella testimonianza dei livelli impensabili di violenza a cui il razzismo bianco meridionale del Sud degli Stati Uniti poteva arrivare fu offerta da Jet, che pure non era una rivista militante . Quando si tratta di razzismo, negli Stati Uniti, anche la figura socialmente, culturalmente, politicamente media può essere chiamata e può rispondere alla necessità di testimoniare della brutalità di cui il razzismo è capace.