Sociologo

Dalla rubrica, Il lavoro delle donne


Proponiamo qui un estratto del volume Sotto Padrone di Marco Omizzolo.


Le agromafie non sono un sistema solo economico, ma anche politico e sociale. Esse innalzano i padroni al vertice della scala sociale e collocano i lavoratori in fondo. Questi ultimi diventano i nuovi sfruttati, e dunque una miniera d’oro per il capitale agromafioso e capitalistico locale e mondiale (…). Alla base di questo sistema ci sono i diritti di tutti noi, quelli che caratterizzano e informano la nostra Costituzione, e con essi anche donne e uomini che diventano ingranaggi da sfruttare il più possibile. Sotto questo profilo, le agromafie sono coniugabili anche al femminile (…). E poi c’è la questione dei ricatti e delle violenze sessuali (…) che contribuisce a definire il grado di arretratezza e perversione del Paese. Le agromafie hanno fatto di questa perversione inaccettabile un’occasione ulteriore di arricchimento, subordinazione e potere. Solo in Puglia, secondo la FLAI CGIL, esistono 40.000 donne braccianti gravemente sfruttate, retribuite 30 euro per lavorare dieci ore continuative nella raccolta delle fragole o dell’uva. Donne, spesso migranti, che per lavorare devono accettare di essere palpeggiate dal padrone o dal caporale di turno, se non di salire sull’auto del padrone allo scopo di soddisfare le sue pulsioni. Uomini italiani ricchi e famosi che arrivavano a ricattare le loro lavoratrici, spesso rumene e altre volte indiane, solo per sentirsi ancora più potenti. Potenti perché capaci di piegare anche il rigore religioso delle donne indiane e la morale delle donne rumene.

Non era solo perversione. Era anche l’espressione di un potere machista e padronale che faceva del corpo della lavoratrice un oggetto, uno strumento per fare soldi e per godere. Esistono realtà in cui questa aberrazione è in qualche modo esplosa. Si tratta di aree agricole in cui lo sfruttamento lavorativo e il caporalato è meglio organizzato e più ramificato, come in Calabria, Puglia, a Vittoria e nel Pontino. Ramona, bracciante rumena di circa trent’anni impiegata nelle campagne della provincia di Latina dichiara: “Il padrone mi aveva assunto e subito mi ha chiesto di andare a una cena aziendale con lui. La proposta mi sorprese, ma io accettai, perché pensai di stare con altre persone e di non correre pericoli. Avevo vent’anni. Tra le prime persone che mi presentò c’era l’avvocato dell’azienda, un uomo molto ricco di circa settant’anni. Sul finire della serata il padrone mi disse che, se volevo davvero lavorare nella sua azienda, dovevo salire con quell’avvocato nella sua auto e soddisfare le sue richieste sessuali. Io mi alzai e andai via. Ovviamente non ho potuto lavorare per quell’azienda”. (…) Il fenomeno è molto più esteso di quello che si pensa. Storie analoghe si possono ascoltare in Puglia o in Sicilia. Leonardo Palmisano, sociologo e scrittore, non ha dubbi: “La condizione delle donne in agricoltura è spaventosa. Ci sono, per esempio, braccianti nigeriane e ghanesi, nel foggiano, sfruttate come prostitute la sera. Il ricatto sessuale è all’ordine del giorno. E non poche sono minorenni. I due fenomeni tendono a fondersi in un unico sistema neo-schiavistico”. Molte di loro vengono sfruttate nei campi e poi in strada. Vittoria però, in Sicilia, è il caso più noto. Donne reclutate in Romania vengono spesso portate nel Ragusano per essere sfruttate nelle campagne. Alcune di loro, dopo essere giunte a Vittoria, vengono impiegate in campagna per dieci o dodici ore al giorno. Le più belle e giovani, spesso le più fragili e ricattabili, anche perché madri, sono obbligate a soddisfare le voglie sessuali del padrone. Vengono infatti costrette a esibirsi in qualche casolare abbandonato, come pubblico i padroni italiani e i caporali rumeni. A Vittoria, oltre il 40% della manodopera romena è composta da donne, arrivate in autobus dalla zona di Botosani con la speranza di lavorare. In tutto i rumeni di questa zona sono 4.000 e le donne circa 1.600-1.800. Il numero di aborti è inoltre un chiaro indicatore che conferma le violenze sessuali. Purtroppo, si tratta di un fenomeno diffuso e nel contempo, nonostante i numeri, ancora troppo sommerso. Lo Stato dovrebbe intervenire non solo reprimendo i protagonisti di questa mostruosità, ma prevenendo il fenomeno e agendo con servizi sociali adeguatamente finanziati e articolati, professionali e competenti, che aiutino tutte le donne vittima di violenza e sfruttamento, tratta, ricatto sessuale e segregazione. Ma di uno Stato così attento e impegnato per ora non si vede l’ombra.

(…) Incontrai Mariana, una lavoratrice rumena, dopo aver ricevuto la sua telefonata. Il mio numero era sui volantini che distribuivamo, sui social e ormai era stato registrato da migliaia di braccianti indiani. Non era difficile trovarlo. Sui trentacinque anni, era una donna attraente, anche se iniziava a mostrare i segni degli anni trascorsi a lavorare in campagna come bracciante. La incontrai al tavolino di un noto bar di Latina. Ci salutammo con una rapida stretta di mano e ci sedemmo a un tavolino. Mi disse che voleva parlarmi. Mi aveva visto in televisione e voleva avere dei consigli su come comportarsi. Guardandola negli occhi, le assicurai che ero a sua disposizione, che l’avrei aiutata in prima persona e mettendola in contatto con servizi sociali e psicologi. “L’unico impegno che ora ci prendiamo è di dirci tutta la verità, ok?”, le dissi guardandola negli occhi. “Va bene”, mi rispose sorridendo. Anche lei mi raccontò dei ricatti e delle provocazioni che aveva subìto dal datore di lavoro. Ancora una volta, tutto avveniva nel capannone, mentre era intenta a lavare o incassettare la verdura raccolta dalle sue colleghe, compagne nella stessa sorte. Il padrone italiano le aveva fatto capire più volte che, se non voleva problemi, doveva accettare le sue avance. Le chiedeva sempre la stessa cosa, ma in forme diverse. A volte usava un tono ironico, altre volte invece lanciava ad alta voce dei sottintesi allusivi piuttosto rudi, in altri casi veniva chiamata nell’ufficio del capo, che mentre le faceva firmare la busta paga le ricordava del suo invito per una cena e un dopocena. Il dopocena non era allusivo, ma esplicito.

Mi fece ascoltare un audio che aveva avuto il coraggio di registrare con il suo cellulare. “Firma qui, Mariana, per i soldi… E ricorda che noi abbiamo una cena sospesa [Si sentiva il padrone ridere]. Te lo ricordi? Facciamo una cena in un ristorante molto importante a Latina e dopo ci divertiamo un po’. Che cazzo ti costa. Tu un uomo non ce l’hai e io ti faccio godere un po’. Passiamo una bella serata. Sopra il ristorante c’è anche un albergo. Ahó, mi capisci? La mattina dopo andiamo a comprare qualche vestito. Dai che con me godi… Ahahah… ti faccio assaggiare il maschio italiano…” In un altro audio fu ancora più esplicito: “Mariana, me la devi dare… Qui comando io, ricordatelo. Altre ragazze me l’hanno data e sono state bene. Hanno ricevuto anche dei soldi in busta paga, che fanno sempre comodo. Tu prendi 800 euro al mese, ma se arrivi a 1.000 mica ti fa male, o no? Guarda che non ti rinnovo il contratto, cazzo! Devi solo farmi un pompino… Ahahah… Guarda che ti conviene”. Per quanto si sia preparati ad affrontare certi temi, per quanti rapporti si siano letti, trovarsi dinnanzi a questi racconti e ascoltare quelle parole gettate addosso a una donna che cercava solo di vivere la sua vita e di lavorare per realizzarla lacera l’anima. Il mio pensiero andò alle tante ragazze che erano state costrette ad accettare, per mancanza di supporto. Mariana rifiutò quelle proposte e per questo venne punita: “Il mio capo mi ha spostata dal capannone, dove il lavoro era più facile e sicuro, alle serre. Non mi ha rinnovato il contratto e mi ha detto che se volevo continuare a lavorare potevo farlo, ma in nero… Lavoro tutto il giorno tranne la domenica. Raccolgo ortaggi, poi curo le piante, che significa togliere l’erba, a volte anche a mano, legarle, annaffiarle e infine dare anche alcuni prodotti chimici”.

I prodotti chimici, soprattutto i fitofarmaci, sono una mostruosità. Alcuni braccianti indiani, solo per citare un caso, già il 10 ottobre 2015, dopo aver irrorato sostanze in una serra nel comune di Sabaudia, furono ricoverati in ospedale per gravi infiammazioni agli occhi e alle vie respiratorie. A forza di spargere diserbanti, concimi chimici e fitofarmaci vari, Mariana si ammalò di cancro. Mentre mi parlava la sua voce si fece subito roca: “Non riuscivo a lavorare bene. Avevo sempre una forte tosse e soprattutto ero sempre più debole. Quello che prima facevo in cinque ore iniziavo a farlo in sei, sette ore. Il capo non mi diceva nulla. Credo che a lui importasse solo di punirmi. Sono andata dal medico e ho fatto le prime analisi. Scoprire di avere il cancro è stato come precipitare da un inferno a un altro ancora più profondo”. Andando via mi regalò una catenina d’argento che teneva al collo, con l’effigie della Madonna in preghiera. La conservo ancora e ogni tanto la prendo in mano e mi fermo a pensare a lei e a tutte le meravigliose donne come lei. Sono passati alcuni anni da questa storia. Ho saputo che Mariana è riuscita a cambiare lavoro.

Aveva cercato per mesi lavoro in un’altra azienda agricola e poi, grazie alla sorella, era riuscita a trovare lavoro come assistente domiciliare da una famiglia italiana alle porte di Roma. Immagino la fine dell’incubo del ricatto e delle violenze, e spero anche del cancro. In ogni caso decise di non denunciare il suo aguzzino. Anche lei aveva solo bisogno di essere ascoltata, di sentirsi riconosciuta come persona, donna e lavoratrice, di consegnarmi la sua storia e poi provare a dimenticare. Le chiesi perché mi avesse raccontato tutto questo, se fin dall’inizio aveva intenzione di non denunciare: “Perché volevo raccontare questa storia a una persona che combatte per noi anche quando noi non ce la facciamo. Io sono stanca e non ho soldi per la denuncia. Soprattutto, però, non voglio più rivivere quel momento e rivedere quella persona. Voglio solo stare bene e dimenticare, ma sono contenta se ascoltando la mia storia tu puoi aiutare qualcuno che sta vivendo le stesse cose. Per questo ti ho raccontato la mia storia”. La abbracciai e la ringraziai, promettendole che le sue parole non sarebbero state vane.

Pensai anche a quei padroni violenti che, dopo aver sfruttato e violentato chissà quante donne, si godono soddisfatti i loro soldi sporchi. Pensai a quante di quelle persone incontro ogni giorno al supermercato, nelle università, in fila in banca o mentre passeggio al parco. Aveva ragione De André, nella splendida Canzone del Maggio, quando cantava: “Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti”. Questo vale per i padroni e anche per quanti di noi che, sapendo, si indignano e poi continuano a camminare per la loro strada.

 

 

 

 

 

 

 

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