Il 1968 fu un anno cruciale nella storia della protesta studentesca. In Italia, in particolare, la fine degli anni ’60 segnò l’inizio di uno dei più lunghi e intensi cicli di protesta della storia contemporanea, che caratterizzò l’educazione politica di un’intera generazione. La memoria di quella mobilitazione è stata riprodotta in decine di film, romanzi e serie tv, affermandosi come topos letterario, come archetipo della protesta studentesca, come termine di paragone con cui è impossibile, per gli studenti e le studentesse in mobilitazione, in Italia, non misurarsi.
Negli ultimi anni, le scienze sociali si sono interessate in maniera crescente al ruolo della memoria collettiva nei movimenti sociali (si vedano, ad esempio, Armstrong e Crage, 2006; Harris, 2006; Jansen, 2007).
In questo contesto, i memory studies, e in particolare la sociologia della memoria basata sul filone aperto da Maurice Halbwachs, sono diventati strumenti fondamentali per far progredire la nostra comprensione dei movimenti sociali. Se la memoria, nella tradizione halbwachsiana, è collettiva nella misura in cui viene prodotta in “quadri sociali”, nel contesto di gruppi sociali strutturati da relazioni sociali, allora una società composta da più gruppi e molteplici appartenenze produce una plurale, e spesso contestata e controversa, memoria del passato (si vedano ad esempio: Olick e Robbins, 1998; Zelizer, 1995; Zerubavel, 1996).
Ciò ci permette di uscire dall’idea, diffusa nel senso comune, che i movimenti siano fenomeni astorici, che nascono spontaneamente dal nulla, con masse di individui spoliticizzati e isolati che scendono in piazza in preda a qualche febbre misteriosa, magari mobilitati dai social network o dalla risposta pavloviana a stimoli e bisogni materiali. I movimenti sono fenomeni sociali che non vivono nel vuoto, ma si sviluppano in un contesto storicamente determinato.
In che modo i movimenti ricordano il passato? La prima cosa importante da dire è che lo fanno. Gli attivisti vivono in un mondo popolato da oggetti, immagini, simboli, storie, tradizioni, rituali e pratiche che provengono dal passato e portano con sé una certa eredità. Il passato è presente nell’ambiente in cui svolgono la loro attività politica, cioè nell’università o nella città, ed era presente nell’ambiente in cui si sono socializzati, attraverso film, programmi tv, libri, storie dei loro genitori, e così via. Sono dotati di un repertorio di memoria che consente loro di accedere a diversi depositi di memoria. Per lo più, fanno affidamento sui mass media e sulla cultura di movimento (Zamponi, 2018), quella riprodotta all’interno di organizzazioni, collettivi e spazi di socializzazione politica.
Che memoria hanno del 1968 gli attivisti studenteschi contemporanei, e in che misura riescono ad appropriarsene e usarla? Le interviste condotte a una serie di studentesse e studenti attivi nel ciclo di protesta anti-Gelmini (la cosiddetta “Onda Anomala”) tra il 2008 e il 2011, mostra che l’appropriazione della memoria del 1968 da parte degli attivisti contemporanei è estremamente difficile.
La protesta di 50 anni fa, infatti, è sistematicamente rappresentata come qualcosa di assolutamente eccezionale e irrepetibile, e gli studenti contemporanei si sentono lontani anni luce da essa. In Italia, in particolare, dove la memoria del 1968 è continuamente rappresentata nei media come l’archetipo canonico della mobilitazione studentesca, il suo mito pone così in alto l’asticella della protesta, che gli studenti contemporanei finiscono per odiare il paragone.
Un ruolo particolare è giocato, inoltre, dal modo in cui nel tempo sono stati amplificati i tratti controculturali e generazionali del 1968, sempre più rappresentato come un periodo di innovazione culturale e liberazione individuale e sempre meno associato a lotte politiche collettive. Questa depoliticizzazione della memoria del 1968, in Italia, finisce per ampliare la distanza percepita dagli studenti e dalle studentesse del XXI secolo, le cui rivendicazioni tendono a essere molto materiali, radicate in una fase storica caratterizzata da crisi economica e precarietà diffusa, nei confronti dei loro omologhi anni ’60, rappresentati sempre più comunemente come testimoni scanzonati di una spensierata ribellione senza oggetto.
Non va dimenticato, infine, che le proteste studentesche vengono sistematicamente delegittimate, nei media, come un rituale stagionale, qualcosa che tende a ripetersi periodicamente, e i cui elementi di contenuto rivendicativo, quindi, non vanno presi sul serio. Ogni movimento studentesco, di conseguenza, ha prima di tutto l’urgenza di farsi riconoscere come nuovo, diverso, alieno al rituale, e ciò rende le associazioni con il passato ancora più rare. Paradossalmente, le associazioni col passato funzionano proprio nella misura in cui sono rare: appropriarsi della memoria del 1968, infatti, può permettere di fuggire dalla gabbia della ritualità e prendere in prestito l’eccezionalità che la narrazione delle proteste studentesche di allora porta con sé. È questo il caso, ad esempio, dell’occupazione di Palazzo Campana, a Torino, nell’autunno del 2010: il recupero di un simbolo del 1968, dopo mesi di mobilitazione anti-Gelmini, avvenne proprio per segnalare che le cose si stavano facendo serie, talmente eccezionali da poter essere paragonate al 1968.
Tali episodi sono rarissimi, e in generale sembra che gli attivisti italiani siano sopraffatti dalla memoria del 1968 e cerchino il più possibile di sfuggire al paragone. Ciò non significa che il passato non giochi un ruolo in ogni ondata di protesta: gli attivisti studenteschi, infatti, attingono continuamente a un insieme di pratiche e conoscenze che affermano di aver ereditato dai loro predecessori. Ci sono repertori canonici e routinizzati e “modi di fare le cose” che sono incorporati nelle identità e nelle pratiche dell’attivismo studentesco e sono continuamente riprodotti nelle aree di movimento. Costituiscono una sorta di “libro di testo della mobilitazione studentesca”, un insieme di regole non scritte che regolano l’attività nelle università in mobilitazione. Sebbene le appropriazioni esplicite della memoria del 1968 siano state rare, nel ciclo di protesta 2008-2011, gli attivisti studenteschi contemporanei sono lontani dall’essere completamente liberi di immaginare la loro azione da zero senza alcun legame con il passato. Agiscono, invece, in un ambiente simbolico e materiale che è stato strutturato da precedenti ondate di mobilitazione, con le quali mantengono una relazione dialettica, bilanciando, strategicamente o inconsapevolmente, ripetizione e innovazione.