Ricercatrice CEPS

La verità è che gli economisti non sanno cosa esattamente fa crescere l’economia. L’economia è una scienza giovane e poco esatta. Sappiamo che più capitale e più lavoro fanno crescere il PIL. Ma sempre meno negli anni, man mano che le economie diventano mature. A quel punto diventano fondamentali la tecnologia, la conoscenza e i miglioramenti nei processi produttivi. Anche se non è possibile quantificare con precisione il loro apporto, due elementi sicuramente entrano nella misteriosa equazione della produttività totale dei fattori: il capitale umano e i processi organizzativi.

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Il loro apporto non è enorme, eppure in un periodo di crescita debole come quello che attraversiamo oggi in Italia anche lo ‘zerovirgolaqualcosa’ diventa importante. E lo è ancora di più se si pensa all’invecchiamento della popolazione: a causa di questo fenomeno, per mantenere lo stesso standard di vita, avremo bisogno di lavorare di più o di lavorare meglio. Che fare quindi?

Il primo passo è investire in capitale umano. Per le economie occidentali, è un dato ormai ampiamente accertato che, in Europa, coloro che detengono un titolo di studio universitario hanno un tasso di occupazione in media di quattordici punti più elevato rispetto a quelli che si sono fermati al diploma. Questo fatto resta vero nonostante un paio di specificità italiane scoraggianti. La prima è dovuta alla lunghezza della transizione tra la scuola o l’università e il lavoro. L’altra è rappresentata dal fatto che studiare in Italia paga meno come investimento che in altri paesi. A dispetto di queste premesse, investire in istruzione resta comunque prioritario, sia per il singolo individuo che per il Paese.

Il secondo passo per aumentare la produttività è incoraggiare l’innovazione nell’organizzazione del lavoro. Di cosa parliamo quando parliamo di workplace innovation? Di forme organizzative che si allontanano sempre più dal modello rigido della fabbrica per lasciare più libertà ai lavoratori rispetto alle modalità per raggiungere un certo risultato. Questa libertà può tradursi in orari più flessibili, gerarchie meno rigide, possibilità di lavorare da casa, di partecipare agli utili di impresa, maggiore autonomia nello svolgimento per il singolo o il team. 

Sono in molti a osservare che questo tipo di misure sono positivamente correlate all’innovazione e alla produttività. La correlazione non indica la direzione della causalità, eppure è forte abbastanza da spingere molti esperti a suggerire di sperimentare le innovazioni di processo. 

Stranamente, nonostante i potenziali vantaggi, solo una percentuale limitata dei lavoratori europei (42%) e ancora minore di quelli italiani (37%) è coinvolta in questo tipo di investimento. La mancanza di informazione sui guadagni, combinata con l’incertezza sulla loro distribuzione, costituisce un forte ostacolo. Ancora maggiore è poi la barriera della mancanza di fiducia tra parti sociali. Tutto ciò impedisce di cogliere un frutto reso maturo dalla tecnologia a buon mercato in questo campo. 

Come fare quindi, in un momento in cui la spesa pubblica può solo essere ridotta e non aumentata? Il nostro suggerimento è per le pubbliche amministrazioni di dare il buon esempio. ‘Se può farlo la PA, possono farlo tutti’, penserebbe qualunque impresa. 

Anche la workplace innovation presenta qualche rischio. Alcuni esperti lamentano per esempio il dissolversi del confine tra vita privata e vita lavorativa. È opportuno quindi anticipare questi rischi nel passare a un sistema più decentralizzato e autonomo. Tuttavia restano di portata minore rispetto ai guadagni in termini di work-life balance, qualità del lavoro e produttività.   

Ilaria Maselli
Ricercatrice CEPS

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