Ho in mente una mia figura ideale di editore. Mi ci consolo, la sera dei giorni piú tumultuosi, 5, 6 per ogni settimana, dopo aver scritto 10 lettere e 20 cartoline, rivedute le terze bozze del libro di Tilgher o di Nitti, preparati gli annunci editoriali per il libraio, la circolare per il pubblico, le inserzioni per le riviste, litigato col proto che mi ha messo un errore nuovo dopo 3 correzioni, mandato via rassegnato dopo 40 minuti di discussione il tipografo che chiedeva un aumento di 10 lire per foglio, senza concederglielo; aiutato il facchino a scaricare le casse di libri arrivate troppo tardi quando ci sono solo più io ad aspettarlo, schiodata io stesso la prima cassa per vedere i primi esemplari e soffrire io solo del foglio che è sbiancato in una copia, e consolarmi che tutto il resto va bene, che né il legatore né il macchinista non han fatto nessuna gherminella alla […]; arrivato con 30 soli secondi di ritardo alla stazione dove tra un treno e l’altro devo combinare un contratto con un editore straniero, ricevute 20 telefonate, 10 facce nuove che vengono con le proposte più bislacche e bisogna sentire, per vedere l’idea che vi portano, scrutarle, scegliere il giovane da aiutare e il presuntuoso da metter subito alla porta.
Penso un editore come un creatore. Creatore dal nulla se egli è riuscito a dominare il problema fondamentale di qualunque industria: il giro degli affari che garantisce la moltiplicazione infinita di una sia pur piccola quantità di circolante. Il mio editore ideale che con una tipografia e un’associazione in una cartiera controlla i prezzi; con quattro librerie modello conosce le oscillazioni quotidiane del mercato, con due riviste si mantiene a contatto coi piú importanti movimenti d’idee, li suscita, li rinvigorisce, non ha bisogno di essere un Rockfeller. La sua forza finanziaria deve esser tutta nella sua capacità di moltiplicare gli affari.Quattordici ore di lavoro al giorno tra tipografia, cartiera, corrispondenza, libreria e biblioteca (perché l’editore dev’essere fondamentalmente uomo di biblioteca e di tipografia, artista e commerciante) non sono troppe anche per il mio editore ideale. L’importante è ch’egli non debba aver la condanna del nostro pauperismo, non debba vivere di ripieghi tra le persecuzioni del prefetto, il ricatto della politica attraverso il commercio.
Basta che egli sia stato logico; non abbia fatto transazioni coi suoi principi di uomo colto, che pubblico e scrittori siano sicuri di lui. Un paese in cui ci fossero tradizioni, che non si debba improvvisare come succede a noi, la potenza di un editore antico è praticamente illimitata. Il centro della crisi del libro dunque è la crisi dell’editore. In Italia non si crede all’editore. Quasi tutti gli editori sono tipografi o librai…
Se il discorso si riferisce soltanto all’Italia, l’Italia non ha crisi libraria: voglio dire che la produzione non è diminuita né peggiorata in confronto ad altri periodi della nostra storia intellettuale. La crisi è sempre esistita e continuerà se si paragona la qualità e la quantità della nostra produzione editoriale con quella dei paesi civili, specialmente Germania, Francia, Inghilterra. (In Bulgaria, in Svezia, in Cecoslovacchia, La pace di F. Nitti si è venduta due volte piú che in Italia, dunque proporzionalmente col numero degli abitanti 8, 15, 20 volte piú che in Italia: e bisogna aggiungere che nel 1925 La pace di Nitti è la piú alta tiratura del libro politico raggiunta in Italia). Il nostro commercio librario, dicono, non è bene organizzato, i dazi doganali sulla carta e sulle macchine tipografiche pesano due volte sul prezzo del libro, non sappiamo esportare nell’America del Sud ecc. ecc. ecco tante ragioni della crisi che è piú vecchia delle tesi del Bonghi e del Martini sull’impopolarità della letteratura e l’inesistenza del teatro italiano. Il libro di cultura in Italia si stampa normalmente in 2.000 copie, in Germania in 5.000; la prima edizione di un nostro romanzo importante è di 5.000 copie, in Francia di 20.000; l’edizione italiana della Storia di Cristo ha toccato 100.000 copie, le edizioni americane quasi 1.000.000 di copie.
La verità è che paragonata colla cultura europea moderna l’Italia manca di autori, di editori, di librai, di pubblico.
Consigli di lettura
Mandami tanta vita di Paolo di Paolo
Febbraio 1926. Moraldo arriva a Torino per una sessione di esami, si porta dietro una strana rabbia e una valigia più pesante di quanto gli sembrasse alla partenza da Casale Monferrato. Dagli anziani coniugi Bovis, che lo ospitano, Moraldo apre la valigia e scopre che deve averla scambiata con quella di un fotografo di strada. Come per chiudere un conto in sospeso, Moraldo si mette ancora una volta sulle tracce di un suo coetaneo. Si chiama Piero. Moraldo gli ha scritto due lettere senza ottenere risposta, l’ha visto passare all’università circondato dal gruppo dei suoi amici. Qualcuno li definisce l’Accademia dei Patiti, ma Moraldo ammira quella vivacità intellettuale proteste, riunioni, giornali, libri. Ma l’ammirazione, nel silenzio, diventa invidia, e l’invidia diventa rancore. A volte si trova a spiarlo mentre passa sotto i portici, senza avere il coraggio di avvicinarlo. Ma adesso di Piero, a Torino, non c’è traccia. Con i suoi occhiali di miope, che sempre gli sfuggono dal volto, Piero ha percepito la minaccia e il pericolo di restare. Lo strappo non è facile: c’è Ada da lasciare sola, con il piccolo Paolo che ha appena un mese. Mentre Piero cerca una sistemazione e si ammala, Moraldo incontra il fotografo che ha preso la sua valigia. È una ragazza: leggera, disinvolta e imprendibile come un fantasma. Ma sarà proprio lei a tenere i fili del destino. Fino all’istante in cui Piero e Moraldo staranno finalmente per sfiorarsi.
Al nostro posto di Piero Gobetti
Con un saggio di Luigi Einaudi.Raccolta di testi scritti apparsi sul periodico ‘La rivoluzione liberale’. Sommario: Il fascismo: dalla pseudo-rivoluzione al regime; Liberalismo e intransigenza: la questione italiana; Uomini e idee; Congedo.