Del senno di poi c’è sempre grande abbondanza e, quindi, bisogna essere molto cauti nell’unirsi ad un coro già molto folto. Tuttavia, come molti esperti dichiarano, la questione delle pandemie non si chiuderà con la Covid 19, speriamo al più presto, ma si riproporrà, con varianti di virus contagiosi, forse nell’arco delle presenti generazioni. Da quel che avviene, o non avviene, in questi mesi può/deve essere tratto più di un insegnamento. Ci sono state carenze soggettive, settoriali, regionali, nazionali che il sacrificio e l’intelligenza di tantissimi non hanno potuto colmare. Sulle diverse cose che sono andate storte si può/deve riflettere anche al livello dell’ideologia sottostante. Già, l’ideologia, che ha un suo peso in quasi tutte le vicende umane importanti. In questo caso l’ideologia in questione è quella dell’onnipotenza e della presunta saggezza, sempre e comunque, del mercato.
In Italia e in Europa mancavano le mascherine. Ora, sembra, non c’è abbondanza ma si tenta un faticoso recupero. L’assenza di mascherine, e simili strumenti, ha provocato ingenti danni perché non si sono potuti proteggere a sufficienza gli “angeli” in prima linea, i medici degli ospedali e delle famiglie, gli infermieri, i portantini, le badanti, le commesse.
Le mascherine incorporano una tecnologia appena più complicata di quella della carta igienica. Almeno quelle “chirurgiche” danno questa impressione. Le altre, più complesse, non sono tali da poter impensierire la tecnologia europea. Negli ultimi anni si è andato spegnendo il dibattito su quale debba essere il futuro produttivo del Paese, cioè se si dovesse puntare sull’high-tech, su produzioni più mature, sul made in Italy o su altro. La discussione è stata sostanzialmente abbandonata perché, se non altro, in Cina si produce di tutto, o quasi, spesso con vantaggi competitivi di prezzo.
Le mascherine, dalle più semplici alle altre, richiedono di essere omologate. Ciò, per così dire, non attiene alla natura merceologica del bene ma riduce la neutralità localizzativa della produzione. In altre parole, accentua la necessità di programmare, che è la principale preoccupazione di questa nota.
La programmazione nasce all’interno del settore pubblico e, poi, coinvolge e attiva gli operatori (produttori) privati. L’intervento pubblico è reso necessario dalla stessa natura economica del bene. La mascherina è un bene di consumo privato con una elevata esternalità positiva. È del tutto simile al vaccino, che impedisce al vaccinato di ammalarsi e riduce il rischio di ammalarsi per i non vaccinati. Nel caso delle mascherine chirurgiche l’esternalità è totale, nel senso che essa non serve a chi l’indossa ma previene il contagio agli altri (indossarla è altruismo). Le caratteristiche del bene giustificano/reclamano ampiamente l’intervento pubblico, anche nell’aspetto del prezzo calmierato.
Come mai non c’erano mascherine? Una prima ovvia risposta è che non ne erano state stoccate a sufficienza. Ci si chiede che cosa ci voleva a costituire una adeguata riserva del prodotto. Si dovevano comperare dove si producevano e impilare in uno o più magazzini. Si sarebbero tirate fuori al momento del bisogno.
La questione è un po’ più complicata. Anche i cannoni della Grande guerra, ancora intatti dopo Vittorio Veneto, furono immagazzinati ma quando si trattò di sparare nuovamente nella Seconda guerra mondiale non servirono perché arrugginiti. Anche le mascherine scadono. Gli stock vanno rinnovati di quando in quando e quindi il costo della riserva mascherine sale.
A questo punto il buon senso consiglierebbe: se non possiamo stoccare un determinato prodotto in quantità, teniamoci a portata di mano la capacità produttiva e il relativo savoir faire. E invece no, abbiamo chiuso i siti produttivi domestici/europei perché un quintale di mascherine prodotte in Cina costa – ahimè costava – centesimi in meno che in Italia (e un bel po’ di Co2 in più). E così oggi vediamo le sarte – anche loro in Paradiso avranno diritto a una suite all inclusive – che cuciono mascherine. Fatte con cuore e mani d’oro.
Si è esagerato con la globalizzazione e il profitto privato.
Intendiamoci non è che si tratti di chiudere tutto. Perché, per esempio, sarà necessario che quelle stesse sarte tornino a cucire abiti del made in Italy da vendere, in particolare, ai cinesi ricchi e benestanti. Serve però recuperare, preferibilmente a livello europeo, la logica della “programmazione”. Se non piace la parola, perché ricorda l’Unione Sovietica, se ne usi un’altra. Non si dimentichi tuttavia che nell’Italia del boom economico degli anni 50 e 60 il concetto e, in parte, la pratica della programmazione ebbero un ruolo importante, potendo fare leva anche sulle “partecipazioni statali”, l’Iri e l’Eni, nel quadro di un’economia mista.
Oggi come allora occorre ragionare su cosa serve di più con chiaroveggenza, disposti anche a sostenere le produzioni e le imprese del ramo. Potrà darsi che il coinvolgimento tra pubblico e privato abbia necessità di erogare sostegni alle produzioni autoctone, abbia cioè bisogno di “aiuti di Stato”. Sono strumenti di politica economica che l’Ue ha sempre proibito accanitamente e che solo da ultimo, a pandemia dilagante, ha autorizzato. Il divieto degli aiuti di Stato è una derivazione logica dell’iper liberismo imperante in Europa da Maastricht in poi. Essi rappresentano un’asimmetria scandalosa all’interno di una unione monetaria con Paesi divergenti. Agli uni è concesso costituirsi come paradisi fiscali, vedi l’Olanda, che sottraggono imponibile ai Paesi vicini (fanno in modo che imprese con stabilimenti e connessi effetti esterni – per esempio inquinamento – operanti in Italia non paghino imposte né in Italia, né in Olanda); agli altri è proibito indirizzare la produzione anche soltanto tramite la politica degli acquisti della Pubblica amministrazione. Per restare in tema, le mascherine (e il paracetamolo e altri farmaci basilari non più prodotti in Europa).
In questi giorni tra i pochi dati positivi che possiamo registrare c’è l’aumento dell’orgoglio di noi pavesi. Avremmo tanto preferito che avvenisse in altre circostanze. Avevamo una Formula 1; senza nostra sorpresa ma con l’ammirazione di tutti l’abbiamo vista sfrecciare al meglio. È il San Matteo. Economisti e giuristi di varie specializzazioni dell’Università potranno – in piccola, appena percettibile, parte – sdebitarsi con il San Matteo e con i medici di famiglia del territorio avviando uno studio sull’industria degli apparati medici.
Questo sarà principalmente compito degli economisti industriali. Questi, insieme a specialisti di altre branche, dovrebbero tracciare le linee di una politica industriale e sociale europea della salute e della sanità. Se si faranno gli eurobond, una parte dei proventi di questi necessari strumenti finanziari sia riservato a questo settore. I proventi siano distribuiti tra i Paesi secondo il peso rispettivo della popolazione ma nell’ambito di una programmazione che esalti e sfrutti le vocazioni produttive di ciascuno.
Ci sarà da fare anche per i cultori di economia pubblica e per i giuristi perché, come minimo, la presente distribuzione delle competenze e dei finanziamenti della sanità in Italia pone diversi interrogativi. Già si levano voci per chiedere il passaggio delle responsabilità allo Stato. Senza aggiungere altro, è evidente che simile ipotesi competerebbe una profonda trasformazione di tutto l’ordinamento finanziario/ammnistrativo se non altro perché attualmente la voce di spesa legata alla sanità rappresenta il 75-85% delle erogazioni delle Regioni. D’altra parte, sembra assai arduo che si possa tornare a parlare di “autonomia” differenziata (ex art. 116 delle Costituzione).
Che non avvenga più che manchino persino le mascherine.