Pubblichiamo qui estratto del volume di Amedeo Feniello e Alessandro Vanoli Storia del Mediterraneo in 20 oggetti (Laterza 2018). Si ringraziano l’editore e gli autori per la gentile concessione.
Che cos’è il Mediterraneo? Un modello di conoscenza distribuito. Cosa significhi questo è facile da spiegare. Basta prendere in mano una rete. Una semplice rete da pesca. E porsi qualche domanda. Chi l’ha inventata? E come mai è sempre stata così dannatamente simile da un lato all’altro del Mediterraneo? Perché viene costruita con la stessa logica nei porticcioli spagnoli, accanto a Patrasso in Grecia, sulle coste italiane, in località mediorientali dai nomi lontani che ricordano il Mediterraneo di Roma? O nel mare del Nord Africa, nelle isole dell’Egeo, sulle coste alte della Turchia?
Per un motivo: il Mediterraneo non è mai stato un mare chiuso. Ma sempre aperto. Al sapere, alla conoscenza condivisa. E i saperi della pesca, di cui la rete è l’incontrastata regina, hanno volato così, impercettibili, di porto in porto. In maniera diffusa. Trasportati da mille legami, sottilissimi, fitti, tramati, per spie- gare i quali non c’è immagine migliore se non quella della rete. Insomma, la rete racchiude tutte le conoscenze del Mediterraneo. Conoscenze che si sono strette tra loro («accatastate», avrebbe detto Fernand Braudel), senza una vera matrice, ma dove tutte si sono armonizzate creando insieme una sinfonia unica che oggi chiamiamo genericamente «saperi delle genti del Mediterraneo». Patrimonio comune, di tutti e di nessuno: perché non c’è un prima ma solo un dopo, al quale tutti hanno partecipato. In maniera indistinta, anonima, occasionale, accidentale talvolta, ognuno però aggiungendo un proprio tassello, un proprio grano di conoscenza per creare quella che oggi chiamiamo «civilizza zione mediterranea», che contiene, senza differenze, ogni capo di questo mare, ogni baia, rada, porto, porticciolo, molo, barca, peschereccio e pescatore. Senza differenze tra le persone che lo hanno abitato e lo abitano.
È bella l’espressione «civilizzazione mediterranea». Naturalmente non siamo i primi ad adoperarla; anzi, quando negli anni Ottanta del XX secolo lo storico José Enrique Ruiz Domenech la usò, faceva venire i brividi, quasi le vertigini, per tutto ciò che evocava. Perché in questa espressione, che coinvolge direttamente il mare, la sua gente e i suoi mestieri, c’è tutto. Non solo l’economia, certamente. Ma un sistema di produzione e di valori, circostanze esistenziali, significati sociali, vita quotidiana, necessità ecologiche che si sommano insieme. Stiamo parlando di qualcosa di più alto di quello che si vorrebbe far credere sia il Mediterraneo. Un mare che è stato ed è ancora – per molti versi e fortemente – sistema, ragione e modello di vita.
Saliamoci, su una barca di pescatori. Ora. E guardiamo cosa accade. È pomeriggio. La barca si muove. Sei-otto persone, l’equipaggio. La rete è lì. Rossiccia. Enorme. A chi non è abituato sembra una massa informe. Un serpente che in un attimo ti può stritolare. O ammassarsi su di sé, per sempre, inestricabile. La rete però non è solo maglie, fitte o meno. È corde, sagole, galleggianti, sugheri, pesi. È tecnologia. È sapienza complessa. Lentezza del pescatore che piano piano, con l’ago-osso di seppia, recupera le trame, rinsalda gli intrecci. Il peschereccio procede lentamente. Le onde sembrano scostarsi e passarci accanto. Il tempo trascorre. La barca si ferma. La rete viene gettata, piano piano, facendo in modo che non si arrotoli su di sé. E piano piano si chiude, su un mondo che non sa che da un momento all’altro si trasformerà in preda. Le voci dei pescatori si incrociano portate dal vento. Si aspetta. Si parla piano. E poi la rete si tira su. A ritmo serrato, ancora una volta, come sempre si è fatto, a forza di braccia. Ma la pesca non è ancora finita. C’è ancora da lavorare. Separare il pesce. Conservarlo nelle celle frigorifere. Prepararlo in certi casi, per una vendita più facile, più conveniente. E poi si riprende il mare. Si torna a casa, spesso nel buio.
Così è ed è stato, più o meno, per secoli. In un Mediterraneo che non è tutto uguale. Certo è mare, dalle Colonne d’Ercole fino all’altro sfiato del Bosforo. Chiuso. Un enorme lago. Ma non è dappertutto lo stesso mare. Perché è cangiante, estremamente cangiante. Per niente omogeneo. Basti pensare a quanto sia grande. Circa tre milioni di chilometri quadrati. Con due grandi quadranti, divisi da uno zoccolo, lo zoccolo tunisino-siciliano. Che separa un Mediterraneo occidentale da quello orientale. Attraversato da correnti. Ce n’è una grande, superficiale, che parte dallo stretto di Gibilterra e scorre lungo le coste nordafricane fino a raggiungere Cipro e il Medio Oriente. Che si dipana e si interseca tanto da formare quattro flussi da ovest ad est. C’è quello che va dallo stretto di Gibilterra, e arriva al Golfo di Valencia e al Golfo del Leine fino alla Sardegna. Un altro, tirrenico, che si riallaccia col precedente a nord della Corsica e si espande fino alle coste italiane e al nord della Sicilia. Poi c’è quello ionico, che copre questo mare e l’Adriatico. E la corrente di Levante, che an ch’essa si riallaccia con quella ionica, toccando le isole e le coste della Grecia, e tutta la Turchia. Poi ci sono i venti. Come quella specie di monsone che in estate si sente specialmente nel mare di Alboran, nello Ionio, nella parte orientale del Mediterraneo. O le depressioni che in autunno e in inverno si avvertono quando ci si avvicina a Gibilterra e all’Oceano. Come violente sono le mareggiate che provengono da sud, dal Nord Africa verso il continente europeo, cariche di umidità.
Vento e correnti: questo per secoli è stato il pane dei pescatori. Vita e salvezza.