Con Fare è innovare. Il nuovo lavoro artigiano, Stefano Micelli celebra la professione del fare, non solo come pratica qualificante per una possibile contaminazione tra lavoro artigiano ed economia globale, ma come potenziale risposta alla crisi e come fattore chiave su cui ripensare il vantaggio competitivo delle piccole e medie imprese italiane e in particolare del Made in Italy. I prodotti degli artigiani cui fa riferimento il libro, variano dalla birra artigianale alla manifattura digitale di gadget e protesi. Prodotti così eterogenei tra loro che rappresentano due modi differenti del “saper fare artigiano”: il primo più legato al rapporto con le culture locali e con il recupero di tecniche della tradizione, il secondo frutto dell’innovazione tecnologica legata all’emblema della stampa 3D e, più in generale, all’utilizzo del computer nella nuova manifattura.
Queste due direttrici sono state rielaborate in forme originali nei diversi Paesi: Francia, Regno Unito, Italia e Stati Uniti. Così Micelli accompagna il lettore verso una breve rassegna dei contributi presenti nella letteratura del making, scoprendo eventi, progetti e luoghi in cui la passione dell’artigiano si è trasformata in una vera e propria professione.
L’Italia e il fiore all’occhiello Milanese
Micelli propone di distinguere tra maker e artigiano: il primo nasce negli Stati Uniti e indica una sperimentazione, uno “stravolgimento” dell’establishment tecnologico e culturale, una sorta di “creatività senza barriere”; il secondo “tende a trovare in alcuni riferimenti classici il suo ruolo e la sua missione”.
Per comprendere la “via italiana alla manifattura digitale” – Micelli offre uno spaccato in cui artigianato, creatività e cultura digitale cambiano le regole del gioco nella tradizionale industria italiana. Alla base, vi è un’idea rinascimentale di lavoro e del Made in Italy in cui tradizione, ricerca, qualità e condivisione risultano le chiavi di volta per il successo. Gli esempi riportati da Micelli mostrano che, oltre al nuovo modello produttivo, ne va costruito uno organizzativo e gestionale. La vera sfida dell’uomo faber odierno è quella della condivisione come forma di valore collettivo.
La condivisione e la comunicazione online divengono dunque risorse essenziali per dimostrare e valorizzare le capacità del fare dei nuovi artigiani all’interno di reti globali.
Il caso di Milano può darci qualche altro spunto.
Secondo il censimento dei maker space in Italia, svolto dalla Fondazione Make in Italy, l’area metropolitana milanese possiede il primato per il più alto numero di laboratori di fabbricazione digitale presenti sul territorio. Micelli evidenzia il nesso tra spazi di incubazione e sviluppo urbano: le amministrazioni particolarmente attente al fenomeno del making si sono attivate per promuovere e favorire l’apertura di spazi destinati alla produzione culturale. L’esempio dell’area ex-Ansaldo a Milano va in questa direzione, l’obiettivo dell’amministrazione comunale è quello di voler “arricchire la vita di un quartiere centrale della città, contribuendo alla sua vivacità sociale e culturale”.
Le politiche per la nuova manifattura
Un grande merito del libro è quello di illustrare le linee guida per le future politiche. Sul piano strettamente economico è chiaro che il lavoro artigiano giochi un ruolo fondamentale nella competitività del Made in Italy, ma la partita vincente si giocherà nella sfera delle politiche da mettere in atto. Il rischio – per Micelli – è classificare e regolare le diverse iniziative in maniera stringente, meglio creare un ecosistema favorevole affinché sia il mercato stesso a selezionare “i nuovi campioni del Made in Italy”.
A mio parere a partire da queste conclusioni occorre indagare l’azione istituzionale dei governi urbani e come l’intervento pubblico sia determinante nel decretare la riuscita o il fallimento di questi progetti.
I nuovi artigiani potranno rappresentare un’opportunità di crescita economica e di rinnovamento sociale sul territorio italiano solo se la politica saprà favorire nuove forme di radicamento e sviluppo locale ravvivando il tal modo il mercato lavorativo. Le “storie vincenti” da sole non bastano. Insieme, occorre individuare alcuni casi in cui l’innovazione rimane nascosta, non incrocia la manifattura, né innerva il territorio, al fine di comprendere il fenomeno nella sua interezza e costruire politiche di supporto efficaci.
Letizia Chiappini
Ricercatrice dell’Università di Milano-Bicocca
14/04/2016