I nostri paesi vivono oggi la fine di un lungo periodo di trasformazioni strutturali: vivono oggi la crisi di un modello globale, economico, sociale, politico e culturale elaborato e teorizzato attraverso il discorso dominante delle scienze sociali subito dopo la fine della ricostruzione dell’immediato dopoguerra. Un modello le cui parole chiave erano “sviluppo” e “modernizzazione” e la cui forza era tale da essersi imposta pure ai regimi comunisti della parte orientale dell’Europa, che avevano accettato la sfida e si erano posti l’obiettivo di “raggiungere e superare il capitalismo”. Dalle nostre parti, si parlava di “miracolo italiano”, e, per la Francia, Jean Fourastié aveva inventato le “Trente Glorieuses”.
In questo modello, il lavoro e la sua remunerazione monetaria occupavano un posto centrale. Viviamo oggi una situazione del tutto diversa. Calo della natalità e aumento della durata media della vita hanno modificato in modo fondamentale, soprattutto negli ultimi cinquant’anni, i rapporti fra le generazioni e il posto del periodo di lavoro remunerato nella vita dei singoli individui, ormai preceduto da un periodo di formazione sempre più lungo e seguito da un periodo di pensione che tende ad estendersi. Solo l’ingresso crescente delle donne nel mercato del lavoro remunerato ha permesso di mantenere fino ad oggi un equilibrio – che sappiamo fragile – fra “attivi” e “passivi” nella popolazione totale. Parallelamente abbiamo assistito a una serie continua di modifiche delle nostre economie che hanno coinvolto tutti, le forme, i contenuti, le qualifiche e le categorie del lavoro in quasi tutti i settori, mettendo in discussione le varie garanzie sociali riconosciute prima ai lavoratori. La disoccupazione è diventata la prima preoccupazione di tutti i nostri governi, che ne sono ritenuti responsabili dall’opinione pubblica: l’Unione Europea viene definita come l’Europa dei 25 milioni di disoccupati.
Riassumendo le principali trasformazioni degli ultimi quarant’anni, che interessano il problema del lavoro, sarei tentato di individuare tre momenti principali. Il primo, negli anni ‘70, è stato quello della “nuova divisione del lavoro” a livello mondiale, che ha significato per l’Europa e l’America del Nord il trasferimento verso paesi meno avanzati dei settori industriali a basso valore aggiunto (tessile, piccoli elettrodomestici) o a forte inquinamento (settore chimico e metallurgia pesante). Il secondo, iniziato negli anni ‘80 e generalizzato negli anni ‘90, corrisponde a una vera rivoluzione industriale, legata all’invenzione e alla rapida diffusione di nuove tecnologie convergenti definite come “micro” e perfino “nano”, di cui l’informatica ha senz’altro avuto e ha ancora oggi gli effetti più vistosi. Il terzo è stato l’emergenza di nuove economie in paesi che hanno programmato politiche di sviluppo orientate verso la costruzione di mercati nazionali: Brasile, India, Cina. La Cina, descritta come “la fabbrica del mondo”, ha realizzato in meno di trent’anni la creazione di un mercato nazionale in rapida espansione, che coinvolge oggi 1,3 miliardi di individui, di cui quasi la metà vive oggi in città e una quota compresa fra il 12 e il 18% costituisce la categoria dei “mingong”, lavoratori migranti senza la minima protezione sociale.
Se tentiamo di ricomporre un quadro globale delle trasformazioni in corso, potremmo dire che tutte le forme del lavoro storicamente conosciute e utilizzate continuano a coesistere in varie proporzioni e ognuna secondo la propria dinamica. Permane una popolazione rurale maggioritaria in molti paesi, che vive soprattutto di autoconsumo. Si profilano forme di “nuova schiavitù” (le organizzazioni umanitarie stimano percentuali superiori ai 10% della popolazione mondiale). Persiste il lavoro nero, sotto tutte le sue forme.
Sebbene l’Europa faccia del suo meglio per difendere il proprio modello di vita, vive pur sempre a contatto diretto o indiretto con forme e gerarchie sociali del lavoro che sono in parte estranee alle sue scelte di civiltà e a cui non può chiudere le sue frontiere. Tanto più che ha fatto una scelta liberale e liberista per regolare i suoi rapporti interni e col resto del mondo. La partita è aperta e, pure se si possono identificare alcune direzioni di più lunga durata, è molto probabile che le regole e le condizioni del gioco verranno ulteriormente cambiate. Dobbiamo prepararci al peggio per tentare di costruire il meglio, o il meno male.
Maurice Aymard
EHESS, Parigi
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