1971. Elio Petri scrive la sceneggiatura e dirige La classe operaia va in paradiso, un film che per molti aspetti marca un’epoca e, soprattutto, uno stile di recitazione. Il tema è la condizione del lavoro in fabbrica, l’alienazione da lavoro, il senso del riscatto, la dignità che il ritmo del lavoro spesso aggredisce e svilisce. Lulù, il protagonista, è l’operaio prima dedito al lavoro e poi, in seguito a un incidente in cui subisce una mutilazione a una mano, indotto a riconsiderare la sua vita, il suo lavoro, il confronto con la sua doppia famiglia (prima moglie e la convivente), ma anche con il sindacato, con gli altri operai con cui non ha mai avuto un rapporto amichevole. Un film che non lascia indifferenti i molti critici già allora, come si vede dalle tre diverse opinioni – di Mino Argentieri sul settimanale Rinascita, di Alberto Moravia sul settimanale L’Espresso e di Goffredo Fofi sul periodico Quaderni piacentini – che abbiamo tratto dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.

A quasi cinquant’anni dall’uscita del film, viene da chiedersi se il 1971 sia irrimediabilmente lontano, o se viceversa qualcosa di quel mondo viva ancora nel nostro quotidiano. Rivedere Lulù – riascoltare il suo mantra “un pezzo, un culo, un pezzo, un culo, un pezzo, un culo”, con cui tiene il livello della produzione e scandisce il ritmo della sua alienazione – ci induce a domandarci: dopo quasi cinquant’anni, le cose sono cambiate? Come sono cambiate? E qualcosa, invece, è rimasto come allora?

1971. Alberto Moravia su L’Espresso
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1971. Mino Argentieri su Rinascita
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1917. Goffredo Fofi su Quaderni piacentini
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