Il dibattito politico e accademico sul mercato del lavoro italiano negli ultimi anni ha posto una forte enfasi sul fenomeno della precarizzazione di una crescente fascia di lavoratori con contratti non-standard. Questo fenomeno, nella letteratura sociologica, è stato analizzato sotto molteplici dimensioni: dalla capacità del lavoratore di conciliare i tempi e le condizioni di lavoro con le attività extra-lavorative (work-life balance), al suo grado d’integrazione agli schemi di protezione sociale e di sostegno al reddito.
In questo quadro tematico, un mio recente articolo presentato alle conferenza SISEC all’Università Cattolica di Milano nel gennaio del 2018, scritto con Lara Maestripieri, ha parlato dell’emergere del fenomeno del “lavoro marginale”, identificato in posizioni lavorative non-standard, soggette a un generale aumento dell’incertezza e dell’insicurezza sociale, caratterizzate da aree grigie e forme ambigue di regolazione che incidono sull’efficacia dell’integrazione dei lavoratori nel sistema di protezione sociale e li rendono vulnerabili a nuovi rischi sociali (come il rischio di abusi contrattuali, involontarietà, bassi diritti ai regimi di protezione sociale e sotto-occupazione).
Essere marginali è definito come uno svantaggio posizionale che deriva da processi sociali attraverso i quali i tratti personali, sociali o ambientali vengono trasformati in fattori reali o potenziali di svantaggio. Si fa riferimento in particolare a due categorie di lavoratori: la prima è rappresentata dagli involontari e/o falsi part-time che si trovano a lavorare a tempo parziale perché non sono stati in grado di trovare un equivalente lavoro a tempo pieno, e/o che pur avendo ufficialmente un contratto part-time lavorano per più di 30 ore settimanali; la seconda categoria è costituita dagli involontari e/o falsi lavoratori temporanei che lavorano con un contratto temporaneo perché non sono stati in grado di trovare un equivalente contratto a tempo indeterminato e che pur avendo un contratto attuale di massimo tre mesi lavorano con lo stesso datore di lavoro da almeno un anno.
La ricerca mostra, attraverso i microdati della European Labour force survey rilasciati da Eurostat, una presenza rilevante di lavoro marginale in Italia soprattutto nella fascia d’età più giovane (25-34 anni), cioè che riguarda in modo particolare i nuovi entranti nel mercato del lavoro. La quota percentuale dei lavoratori marginali sul totale della forza lavoro è passata da circa il 13% nel 2009 a circa il 18% nel 2016 per la suddetta fascia d’età, mentre si riduce considerevolmente se si considera una fascia d’età più avanzata (35-64 anni), passando dal 6,5% nel 2009 all’8% nel 2016. Questo dato importante esprime in modo chiaro ‘l’effetto di deriva’ dovuto al modo in cui la deregolamentazione contrattuale è stata storicamente implementata in Italia, cioè indirizzata per lo più ai nuovi entranti nel mercato del lavoro.
Ancora, la ricerca ha dimostrato una trasversalità del fenomeno, sia nei diversi livelli di istruzione dei lavoratori coinvolti, sia nei diversi settori economici. Tuttavia, se si considera il livello regionale, il quadro quantitativo del lavoro marginale diventa più variegato. Le pratiche di uso del lavoro non-standard si differenziano particolarmente tra contesti territoriali, riflettendo la tradizionale suddivisione per macro aree Nord-Centro-Sud, ciò a conferma che il contesto territoriale, caratterizzato da un determinato orientamento cognitivo e normativo degli attori, rappresenta una variabile significativa per il cristallizzarsi di specifiche strategie regolative nelle relazioni occupazionali. In questo quadro interpretativo è realistico sostenere che, soprattutto in contesti territoriali con una tradizionalmente alta quota di lavoro nero e irregolare, le condizioni di falsi part-time e falsi lavoratori temporanei siano strategie esplicite di abuso dei datori di lavoro, che vogliono assumere una manodopera altamente qualificata e produttiva al di fuori della protezione offerta dal lavoro dipendente. In conclusione, questi dati sembrano confermare il consolidamento in Italia di un mercato del lavoro complesso, in cui la tradizionale dicotomia tra insiders (lavoratori che godono di alta sicurezza sociale) e outsider (lavoratori con bassa o nulla sicurezza sociale) ha lasciato spazio a un quadro più cromatico, costituito da un continuum di posizioni lavorative con un diverso grado di “outsiderness” che richiama l’attenzione a un evidente disgiunzione tra gli schemi istituzionali di protezione sociale nazionali e l’emergere di nuovi rischi sociali per i lavoratori, in modo particolare per quelli più giovani.