Se per molte società l’alimentazione resta ancora legata alle sue cadenze stagionali, in un’ampia parte del mondo essa è andata incontro ad un meticciamento diffuso e ad un conseguente impoverimento. La globalizzazione del cibo e la sua trasformazione in merce ne hanno comportato il suo estraniamento – dal suolo, dalla storia, dalla cultura – relegandolo a una mera programmazione di marketing e di laboratorio agronomico e chimico, finalizzato alla manipolazione degli alimenti, alla creazione di nuovi, sino ad alterarne i ritmi di crescita, la forma o la sostanza. L’alimentazione è razionalizzata a favore di un rendimento economico contrario al suo valore simbolico, di bene condiviso collettivamente, parte di meccanismi d’industria che la sottopongono a una concorrenza spietata.
Non si tratta più di un sapere ereditato da una lunga tradizione o di una conoscenza locale messa in opera, ma di una logica commerciale, poco attenta agli aspetti ecologici o alla qualità degli alimenti. Questa produzione deliberata sotto l’egida del marketing tende ad attrarre il consumatore con argomentazioni visuali. Ma il gusto raramente si trova all’appuntamento. Mele, pere, pesche e molti altri frutti sono oramai ridotti nei supermercati a un pugno di varietà selezionate, opere d’arte belle alla vista, che brillano come oggetti di un colto design.
L’esperienza sensoriale del cibo si è profondamente trasformata negli ultimi decenni, ampiamente impoverita per un alto numero di nostri contemporanei condannati ad acquistare nei grandi spazi della distribuzione prodotti a basso costo.
I fast-foods riscuotono un notevole successo, non solo nelle società europee, dove contribuiscono a modificare la cultura gustativa, ma anche nel resto del mondo. La riduzione frequente del pasto a una sorta di riflesso alimentare da soddisfare nell’urgenza, favorisce questo tipo di frequentazioni, come l’abitudine allo sgranocchiamento durante la giornata. I membri della famiglia non mangiano più così spesso insieme, ciascuno alla propria ora, al ritorno dal lavoro o dalla scuola, preparandosi il proprio piatto, spesso già confezionato e solo da riscaldare. La commensalità non è più così in voga. Il consumatore moderno è spesso solitario e frettoloso. L’ozio giubilatorio del gusto non è il suo orizzonte.
La simbologia della tavola si trasforma. Le giovani generazioni, soprattutto, sposano le abitudini alimentari dei loro coetanei americani. Non senza compiacimento, creando cosi nuove culture del gusto, consumando di preferenza prodotti che si attestano su soglie sensoriali di base, standardizzate, dis-apprendendo così la sottigliezza dell’esperienza gustativa. Saturi di grassi e di zuccheri, questi alimenti colmano necessità biologiche per giovani diseducati a differenziare i gusti e ad equilibrare il loro pasto. Molti esperti lamentano l’indebolimento della miriade di sfumature percettive per queste generazioni acculturate ai fast-foods o al cibo pronto. Il gusto è dato piuttosto dalle salse che devono contendersi, spremere, e delle bevande dal forte sapore zuccherato (coca, soda, etc…). In tal senso un lavoro considerevole deve essere svolto trai giovani per ri-educarli al gusto, aprirli a esperienze più elaborate, meno avvezze alla sensazione facile bensì alla complessità dei sapori.
David Le Breton
Antropologo e Professore di Sociologia presso l’Università di Strasburgo