“Il Green Deal europeo. Il nostro uomo sulla luna.” È così che Ursula Von der Leyen annunciò, quasi un anno fa, il nuovo piano sul clima che pone il grande obiettivo di trasformare l’Europa nel primo continente a impatto climatico zero entro il 2050, con un’importante tappa di metà percorso che richiede una diminuzione delle nostre emissioni del 55% per il 2030.
L’alta ambizione, richiesta dall’urgenza della sfida, ha immediatamente richiamato ampie critiche e dubbi sulla riuscita del piano annunciato dall’Europa, in gran parte basato sulla capacità dei singoli Paesi di attivare congiunture virtuose tra attori privati, pubblico e fondi di investimento in grado di generare e promuovere investimenti di lungo periodo.
Mentre numerose voci richiamavano l’attenzione verso l’inadeguatezza dei finanziamenti previsti (in base alle stime della Commissione stessa, per raggiungere la neutralità climatica al 2050 servirebbero almeno 260 miliardi di euro di investimenti annui, 2.600 miliardi in un decennio), pochi notavano lo scarso spazio dedicato ai sussidi ambientali, un tema cruciale per un’efficace mobilitazione delle finanze pubbliche come strumento di contrasto all’emergenza climatica.
Tra le misure trasversali di sostegno alla realizzazione e sostenibilità del Green Deal, leggiamo della necessità di “inverdire” i bilanci nazionali e inviare i giusti segnali di prezzo, riorientando gli investimenti pubblici, i consumi e la tassazione verso le priorità verdi, abbandonando le sovvenzioni dannose, definendo con gli stati membri riforme fiscali ben concepite che possano stimolare la crescita economica, migliorare la resilienza agli shock climatici, contribuire a una società più equa e sostenere una transizione giusta.
Ma cosa sono i sussidi dannosi e perché è importante comprenderne a fondo l’impatto, soprattutto alla luce del nuovo programma Next Generation EU?
I SAD (sussidi ambientali dannosi, in inglese Environmental Harmful Subsidies, EHS) sono sussidi alle imprese e alle famiglie che sostengono in modo diretto o indiretto un’attività che reca un danno all’ambiente, contravvenendo al principio del “chi inquina paga”. Questo può avvenire tramite l’emissione diretta di sostanze inquinanti, l’incentivo all’uso di mezzi di trasporto con elevati costi esterni o anche favorendo, a monte, la produzione di energia da mix produttivi poco sostenibili. Essi rappresentano quindi un retaggio del sostentamento a forme di economia radicate nell’uso dei combustibili fossili, diventando portatori di una potenziale distorsione del mercato a causa della loro azione diretta (incentivando un’attività che danneggia l’ambiente) o indiretta (riducendo il costo di un’attività che danneggia l’ambiente) sulle scelte di imprese e consumatori. I sussidi ambientali dannosi generano un onere fiscale di legittimità discutibile verso i contribuenti, considerato il loro effetto dannoso sull’ambiente come bene collettivo della società intera.
La proposta del Green Deal è stata ripresa e rafforzata dal Recovery Fund Next Generation EU, l’accordo raggiunto il 21 luglio 2020 che finanzierà riforme strutturali e investimenti pubblici in campo digitale, educativo, infrastrutturale e ambientale/energetico.
La retorica del cambiamento proposta è tuttavia già stata ridimensionata nel documento finale dell’accordo, vedendo le più innovative proposte per l’innovazione energetica, sostituite da riforme più tradizionali. In attesa delle prime bozze dei piani di investimento nazionali, che dovrebbero arrivare entro la prima metà di ottobre e non oltre l’Aprile del 2021, i dati non sono incoraggianti: 16 dei paesi europei che hanno sottoscritto il National Energy and Climate Plan (NECP) forniscono liste incomplete dei sussidi e nessuno dei 26 ha proposto degli obiettivi di medio/lungo periodo per la loro eliminazione.
I sussidi ambientali dannosi possono essere inquadrati quindi come un fenomeno complesso all’interno del più ampio tema della transizione verde, con un impatto multidimensionale su ambiente, economia e società, la cui comprensione ci pone davanti a differenti sfide:
- Imparare a identificare i SAD
- Comprendere la scala e gli effetti sull’ambiente dei SAD
- Costruire delle riforme sistemiche ed efficienti che portino a un’eliminazione sostanziale dei sussidi dannosi
Innanzitutto, identificare i SAD è un compito complesso: una caccia tra gli anfratti dei bilanci che, al momento, viene portata avanti da sette economisti che pubblicano da tre anni un dettagliato panorama dei sussidi dannosi e favorevoli per l’ambiente in Italia. A livello nazionale, questo arduo compito di individuazione, da febbraio di quest’anno, viene portato avanti dalla Commissione per la Transizione ecologica, istituita dalla legge di bilancio 2020-2022, che studia come convertire tutti i sussidi ambientalmente dannosi in sussidi verdi.
A livello Europeo, non esiste, purtroppo, una definizione univoca di sussidio alle fonti di energia fossile. Il Regolamento Europeo in materia specifica infatti che, quando gli Stati membri costruiscono i report in materia, possono riferirsi a una qualsiasi delle definizioni di “sussidi alle energie fossili” esistenti a livello internazionale. Questa grave vaghezza legislativa porta inevitabilmente a scelte variabili a seconda delle agende politiche e, in alcuni casi, alla negazione dell’utilizzo dei sussidi (è il caso del Regno Unito e dell’Olanda che si posizionano invece al secondo e settimo posto per il numero di sussidi forniti).
Comprendere la portata dell’utilizzo dei SAD si rivela di importanza cruciale.
Secondo una ricerca di Investigate Europe (le fonti e i dati, riferiti agli anni 2016/2019, sono rinvenibili qui), trenta Paesi dell’Area Economica Europea e il Regno Unito hanno attualmente attivi incentivi per l’utilizzo delle energie fossili come carbone, gas, petrolio e lignite per circa 137 miliardi di euro all’anno. La Germania primeggia in cima alla lista con 37 miliardi, seguita dal Regno Unito per 19 miliardi, dall’Italia a 18 e dalla Francia a 17.5.
Il Rapporto “Sussidi Ambientalmente Dannosi. Proposte per il loro superamento entro il 2025″ del Giugno 2020 è stato realizzato dalla Campagna Sbilanciamoci!, un gruppo che riunisce 49 organizzazioni e reti della società civile italiana impegnate sui temi della spesa pubblica e delle alternative di politica economica, e ci offre un quadro della situazione a livello nazionale.
Il Catalogo del Ministero dell’Ambiente ha rendicontato per il 2018 19,8 miliardi di sussidi ambientalmente dannosi, per il 90% sussidi alle fonti fossili. Essi si rivolgono alle imprese (per 3,8 miliardi) e alle famiglie (2,8); quote consistenti vanno al settore dei trasporti (circa 4 miliardi), a quello energetico (2,1 miliardi) e al settore agricolo (1,7). 5,1 miliardi scaturiscono dal differente trattamento fiscale del gasolio rispetto alla benzina.
Che strategia è possibile immaginare per tagliare in modo efficace i SAD a favore di sussidi favorevoli alla transizione verde?
Una risposta per l’Italia potrebbe arrivare dalla Commissione interministeriale per la riduzione dei sussidi ambientalmente dannosi, che è tornata a riunirsi a Marzo di quest’anno dopo la sua costituzione nel mese di Febbraio. In generale, si punta a misure graduali e progressive, per una transizione ecologica a saldo zero di settori in forte stress finanziario dopo la crisi causata dalla pandemia Covid, al fine di erogare compensazioni di tipo sociale o misure di supporto economico di pari entità.
L’obiettivo più ambizioso si configura quindi come il passo più efficace davanti a una crisi di imprese e famiglie: il recupero delle risorse dedicate ai SAD dovrebbe essere riconvertito in misure a favore di un’economia sostenibile, operando una vera e propria trasformazione dei Sussidi Ambientalmente Dannosi in Sussidi Ambientalmente Favorevoli.