L’articolo è tratto dal percorso editoriale dedicato alla figura e alle eredità di Margaret Thatcher in occasione di quarantanni dalle elezioni del 4 maggio 1979 che avrebbero cambiato per sempre la Gran Bretagna e l’Europa
Il testo di Stuart Hall pubblicato in questo sito è un documento storico di grande interesse. È una lettura in presa diretta – viene pubblicato nel gennaio del 1979, qualche mese prima dell’affermazione elettorale dei conservatori che portò Margaret Thatcher alla guida del governo – di uno spostamento a destra della società e della politica britannici. Hall riconosceva immediatamente che non si era di fronte all’ordinaria alternanza di governo che aveva caratterizzato il sistema politico britannico nel dopoguerra, ma a un fenomeno qualitativamente nuovo che mutava in profondità le basi stesse dello scontro politico. La Thatcher rimase alla guida del governo per undici anni – e i conservatori per diciotto – ma ciò che più importa è che con la sua politica marcò una discontinuità radicale rispetto al quadro egemonico sul quale si era retta la fase di ricostruzione, e poi di boom economico, seguita alla Seconda guerra mondiale.
Hall non si è limitato semplicemente a registrare questo passaggio, ha fornito delle chiavi di lettura che aiutano a comprendere gli elementi di novità del thatcherismo che egli qualifica non come un riflesso della crisi, ma come una risposta ad essa. Il thatcherismo, insomma, non è un sintomo, ma un elemento che agisce nella crisi per ridefinire lo spazio politico attraverso la mobilitazione di nuove risorse simboliche e con un sostanziale aggiornamento dell’agenda di governo.
Negli anni Settanta, in Inghilterra vi era stato un progressivo allineamento della politica laburista e socialista con lo Stato, fino a un’identificazione integrale con esso in quanto unico strumento, considerato di per sé progressivo, per contrastare/regolare il potere del capitale. In questa identificazione si era smarrita qualsiasi capacità critico-riflessiva, vale a dire che lo Stato andava difeso indipendentemente dalle forme e dai contenuti della sua azione, e soprattutto si era perso il legame con la mobilitazione sociale che avrebbe dovuto vivificare l’azione statale alimentando una dinamica democratica. Da questo ripiego della sinistra sullo Stato, secondo Hall, si era aperto lo spazio per chi, ponendosi fuori dello Stato, poteva presentarsi come forza politica che combatteva contro gli apparati appellandosi alla gente, al popolo.
La svolta a destra poteva fondarsi su alcuni presupposti che si erano creati negli anni precedenti, non solo per le conseguenze sociali della crisi economica, ma per un profondo mutamento del senso comune e dell’orientamento della opinione pubblica britannica. Da almeno un decennio erano cresciuti il razzismo e l’avversione ai movimenti migratori che disegnavano l’orizzonte di una crisi postcoloniale della società britannica. Se alla fine degli anni Sessanta l’ascesa del National Front e l’aggressiva propaganda nazionalista e razzista di Enoch Powell avevano trovato ascolto anche in aree sociali tradizionalmente laburiste, la loro sconfitta politica non arrestò la diffusione del loro messaggio che venne riformulato in forme più “rispettabili” penetrando in modo massiccio nel discorso pubblico sulla crisi degli anni Settanta. Razzismo, blocco dell’immigrazione, ossessione securitaria, reazione al “declino britannico” erano tutti materiali simbolici sui quali la Thatcher fu in grado di costruire una politica delle emozioni e delle immagini, un nuovo apparato egemonico che faceva “leva sulle paure, le ansie, le identità smarrite di un popolo”, come ebbe a scrivere lo stesso Hall alcuni anni dopo.
Ma la chiave del successo thatcheriano, va sottolineato, stava nel fatto che questa retorica, queste immagini, queste emozioni, davano forma a una crisi reale e percepita, rappresentavano una risposta a delle contraddizioni concrete, non si trattava di inganni, ma di una efficace iniziativa politica che affrontava i temi forti della crisi che attraversava la Gran Bretagna. Si poteva così prospettare un futuro fondato sulla riaffermazione dei valori morali e della famiglia, sul ripristino dell’autorità, sull’englishness, intesa come identità di una nazione bianca sulla quale aleggiavano nostalgie imperiali. Non è un caso che l’apice del consenso thatcheriano sia stato raggiunto con la guerra delle Falkland, un gesto di plateale riscatto contro la narrazione del declino britannico.
Nel quadro di una trasformazione della morfologia del capitalismo che erodeva e disarticolava gli spazi nazionali per ricostruire nuove geografie globali attraverso dispositivi di controllo dei flussi di merci, lavoro e capitale che sfuggivano sempre più al controllo degli Stati, si affermava una narrazione neo-nazionalista e identitaria che risarciva sul piano simbolico la distruzione del progetto sociale che si era realizzato durante la Golden age. L’azione della Thatcher non si tradusse in un semplice smantellamento dell’apparato statale quanto piuttosto in una sua ristrutturazione coerente, da un lato, con la ridefinizione delle mappe e dei dispositivi di funzionamento del capitalismo globale, dall’altro con un progetto di rifondazione simbolica della comunità politica su basi etnico-identitarie che operava una aggressiva rigerarchizzazione dello spazio sociale. Le basi culturali conservatrici di questo progetto non devono mascherare il fatto che si trattò di una profonda innovazione politica che rompeva con alcuni elementi di fondo della tradizione conservatrice britannica, a partire dal radicamento sociale che fu assai più variegato di quanto possa restituire una lettura classista della base elettorale thatcheriana, con uno sfondamento in quartieri operai che erano stati terreno di radicamento sindacale e laburista. Eppure, classista la politica thatcheriana lo fu indubbiamente, fondata su alcuni pilastri quali l’indebolimento dei sindacati, la privatizzazione dell’apparato industriale, il disinvestimento sui servizi pubblici, una politica che raddoppiò il numero dei disoccupati nei primi tre anni di governo. Una politica che ben si accordava con la ristrutturazione del capitalismo globale, meno invece con la tutela delle fasce sociali in difficoltà. Eppure vinse brillantemente tre competizioni elettorali mantenendo pressoché inalterato il proprio consenso e venne affossata dal suo stesso partito a metà del terzo mandato non su questioni di politica sociale o economica, ma a causa del suo pertinace anti-europeismo.
La chiave del successo del thatcherismo è stata la definitiva sconfitta dell’avversario e il suo ingombrante lascito, negli anni che ci separano dalla caduta politica della Thatcher, ha potuto prosperare facilmente proprio in ragione di un persistente vuoto: una risposta alternativa alla crisi che coniughi democrazia, eguaglianza sociale e un’inclusiva visione globale dei destini del mondo.
Qui di seguito, la traduzione dell’introduzione dell’articolo di Stuart Hall, The Great Moving Right Show, in «Marxism Today», Gennaio 1979
Nessuno, tra coloro che sono veramente coinvolti in politica, può ignorare l’attuale “scivolamento a destra” della Gran Bretagna. Potremmo non comprendere ancora la sua reale entità e i suoi limiti, né il suo carattere specifico, cause ed effetti. A parte alcune eccezioni di rilievo, abbiamo fallito nel trovare strategie capaci di mobilitare forze sociali, abbastanza robuste da ribaltare la situazione. È difficile, però, negare l’evidenza. Non è più una apparizione temporanea nel percorso e destino della politica, uno spostamento di breve periodo nell’equilibrio tra le forze. Si è sedimentato – si tratta perciò di una perdurante preoccupazione – fin dalla seconda metà degli anni ’60. E, anche se si è sviluppato lungo una serie di fasi differenti, ora sembra acquisire forza e slancio. Dobbiamo discutere i suoi caratteri apertamente e in modo approfondito, in particolare a sinistra, senza inibizioni e certezze precostituite.
Alcuni aspetti hanno guadagnato attenzione tra la sinistra: il polso fermo della strategia economica e industriale dell’attuale governo di fronte alla recessione e alla crisi dell’accumulazione del capitale; l’emersione del “thatcherismo” e delle campagne anti-Sinistra; la crescita del National Front come forza politica vera e propria. Ma la vera dimensione del precipitare a destra del paese continua a non avere una profonda e meritata analisi. Questo può dipendere dal fatto che la crisi continua a essere “letta” dalla sinistra all’interno del “senso comune”, forte di alcune ben radicate e rispettabili posizioni. Molte di queste, però, non garantiscono più una cornice analitica e teoretica: azioni e iniziative che provengono da queste convinzioni continuano a non raggiungere il loro scopo.
Alcuni continuano a sostenere “auguriamoci il peggio”, perché il peggio potrebbe portare le contraddizioni ad esplodere. Un punto di vista come questo si basa spesso sulla convinzione diffusa dell’inevitabilità della lotta di classe e del successo delle “forze progressiste”. Coloro che ci credono hanno memoria politica breve. Hanno dimenticato quanto frequentemente, nella storia recente, l’esplosione delle contraddizioni ha portato a una risoluzione favorevole per il capitale e la destra, più che l’opposto sperato. La più comune risposta della sinistra è probabilmente l’interpretazione dello “scivolamento a destra” come immediata espressione della crisi economica. Di conseguenza il “thatcherismo”, dati più o meno questi elementi, sarebbe l’alleato politico corrispondente a un periodo di recessione capitalistica: le differenze significative tra questa e altre varianti della “filosofia” Tory vengono così concepite come estranee a effetti politici e ideologici attinenti. Secondo questa lettura, il National Front sarebbe il risvolto irrazionale e già previsto del capitalismo, il nemico di classe nel travestimento familiare del fascismo.
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