Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Dopo essere stata invocata per anni dai policy maker, l’inflazione è tornata. Negli Stati Uniti ha raggiunto il 7,5% su base annua, nell’Unione Europea il 5,6%, nel Regno Unito il 4,9%. Se è considerata il sintomo di un’economia sana quando è moderata e sotto controllo, oggi l’inflazione torna a rievocare vecchi fantasmi.

Siamo di fronte a una fiammata temporanea? O la crescita dei prezzi è qui per restare? Nessuno lo sa con certezza.

Il dibattito sull’inflazione si è tornato ad accendere dopo decenni. È emersa con chiarezza la difficoltà di trovare un modello economico convincente nello spiegarla, ma anche la difficoltà di rispondervi adeguatamente e di fare previsioni affidabili. Negli Stati Uniti, per esempio, la banca centrale ha dapprima cercato di calmare le acque, definendo il fenomeno inflazionistico come “transitorio”. Poi però, di fronte al persistere degli aumenti dei prezzi, ha fatto marcia indietro.

Alcuni temono che l’inflazione possa innescare una spirale salari-prezzi. Significa che, al crescere del costo della vita, i lavoratori chiedono aumenti salariali per compensare la perdita del proprio potere d’acquisto. Di conseguenza, i capitalisti tentano di preservare i propri margini di profitto, facendo crescere ulteriormente i prezzi. I lavoratori sono spinti a chiedere altri aumenti salariali, e così via, in una vera e propria spirale.

Non tutti, però, ritengono credibile il verificarsi di una spirale salari-prezzi. L’apertura di una nuova stagione di rivendicazioni salariali, infatti, richiede sindacati forti. Negli ultimi decenni, invece, le organizzazioni dei lavoratori sono diventate sempre più deboli.

Guardiamo per esempio al caso dell’Italia. Nel 2009 i sindacati confederali, tranne la Cgil, stipularono un accordo quadro con il governo sulla riforma degli assetti contrattuali. L’indicatore dei prezzi scelto come punto di riferimento per gli aumenti salariali fu l’IPCA depurato dai prezzi dei beni energetici importati. Dai calcoli fu dunque esclusa una voce di spesa relativa all’energia che pesa molto sulle tasche dei lavoratori, soprattutto in questo periodo storico. Nelle contrattazioni collettive ciò rappresenta un punto fortemente sfavorevole ai sindacati.

Che si inneschi una spirale salari-prezzi o no, quali strumenti abbiamo per combattere l’inflazione? Anche su questo aspetto il dibattito si è infiammato.

La soluzione tradizionalmente proposta è un aumento dei tassi di interesse da parte della banca centrale, che si ripercuoterebbe sui tassi applicati sui mutui e altri prestiti. Questa misura irrigidirebbe le condizioni finanziarie, raffreddando l’attività economica. Tuttavia, come ha spiegato John Cassidy sul New Yorker riferendosi al caso statunitense, “la Fed non ha una bacchetta magica per far scendere l’inflazione in modo rapido e indolore. Non può sbloccare i porti, procurare più semiconduttori o convincere milioni di americani che hanno abbandonato la forza lavoro durante la pandemia a tornare al lavoro (…) Ciò che la Fed ha la capacità di fare abbastanza rapidamente, se sbaglia, è far crollare il mercato immobiliare, il mercato azionario e l’economia”.

Raffreddare l’economia è possibile anche con una stretta fiscale, ossia con l’austerità: aumentando le tasse o riducendo la spesa pubblica si può provare a ridurre l’attività economica. Lo suggeriscono alcuni falchi come il senatore democratico degli Usa Joe Manchin, il quale ha più volte dato la colpa dell’inflazione all’“eccessiva” iniezione di liquidità ad opera del governo. Il rischio dell’austerità, però, è di precipitare un’economia ancora fragile in una nuova recessione e di rendere ancora più difficili gli investimenti per le grandi sfide che abbiamo di fronte, come il cambiamento climatico.

Ecco allora che si fanno strada idee alternative. Alcuni hanno suggerito di concentrarsi sulla questione del potere di mercato. Le imprese più grandi, infatti, sfuggono più facilmente alla concorrenza e così sono più libere di aumentare i prezzi e contribuire alla crescita dell’inflazione. Un ruolo più forte dell’antitrust può stimolare la concorrenza e avere effetti anti-inflazionistici.

L’economista Isabella Weber (che è stata ospite del Feltrinelli Camp “For a New Globalization”) ha scritto in un articolo per il Guardian che

“dobbiamo considerare sistematicamente controlli strategici dei prezzi come uno strumento in una risposta politica più ampia a enormi sfide macroeconomiche, invece di fingere che non ci sia un’alternativa oltre all’attesa o all’austerità”.

In effetti, ricorda Weber, “durante la Seconda guerra mondiale l’amministrazione Roosevelt impose severi controlli sui prezzi” e dopo la fine del conflitto molti importanti economisti americani (da Paul Samuelson a John Kenneth Galbraith) raccomandarono, inascoltati, di mantenere questa misura.

L’articolo di Weber ha aperto il vaso di Pandora, generando reazioni scomposte da parte di vari studiosi “mainstream”, fra cui Paul Krugman (che poi si è scusato). Che si creda o no alla necessità di introdurre controlli mirati sui prezzi, è comunque chiaro che le soluzioni tradizionali all’inflazione sono insufficienti.

Come scriveva Keynes, “la difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nell’evadere da quelle vecchie”. Se vogliamo essere all’altezza della sfida di fronte alla quale si gioca il futuro della nostra politica economica, dobbiamo essere pronti a confrontarci senza preconcetti.

È perciò che questo testo vuole aprire un confronto a più voci sul tema dell’inflazione, avviando un dibattito sui suoi effetti e su possibili soluzioni per una politica economica al servizio dei cittadini.

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