Il 12 giugno 1982 quasi un milione di persone manifestano a Central Park contro le armi nucleari. La manifestazione, una delle più grandi nella storia di New York, avviene in contemporanea a una conferenza alle Nazioni Unite dove si discute proprio di disarmo nucleare.
La manifestazione, organizzata da una vasta coalizione comprendente pacifisti, anarchici, bambini, monaci buddisti, vescovi cattolici e studenti universitari, è lunga più di tre miglia ed è fatta di cori scanditi in dozzine di lingue diverse che chiedono la fine della Guerra Fredda.
Quelli che scendevano in piazza il 12 giugno 1982 non partivano dal presupposto che la guerra non li riguardasse, o che non volevano sporcarsi le mani (e l’anima) con la realtà materiale. Al contrario, pensavano che la guerra li riguardasse così tanto che era urgente pensare (e fare) qualcosa che non solo ne sancisse la fine, ma che potesse creare ora il palinsesto del «giorno dopo».
In queste settimane in molti hanno pensato che chi chiede la fine della guerra sia ingenuo o indifferente. Quel che a noi sembra importante è capire chi oggi stia elaborando un pensiero per il dopo, assumendosi ora la responsabilità non solo di questo tempo, ma anche del tempo a venire.
«Dopoguerra» infatti non è un tempo cronologico.
Non si dà semplicemente quando le armi cominciano a tacere, ma quando ci si sforza di rifondare le condizioni del vivere e di dare ordinamenti nuovi al presente. Per questo, forse, è meglio parlare di «giorno dopo».
Quel tempo non è alla fine e non accade naturalmente ma nasce dalla consapevolezza che serva un nuovo principio per pensare futuro. Anche per questo «giorno dopo» non è tempo cronologico: è azione. Hannah Arendt l’ha detto meglio di quanto non possiamo fare noi.
“Il corso della vita umana – scrive in Vita activa – diretto verso la morte condurrebbe inevitabilmente ogni essere umano alla rovina e alla distruzione se non fosse per la facoltà di interromperlo e di iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che è inerente all’azione, e ci ricorda in permanenza che gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per incominciare”
[Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 2012, p. 182].
Questa condizione è meno eccentrica di quanto si possa pensare e si è verificata molte volte nella storia contemporanea. Soprattutto nel «secolo breve». Si è data ogni volta che non ci si è arresi alla condizione stretta della crisi, facendo la «mossa del cavallo» per darsi un nuovo orizzonte. Non limitarsi ad enunciare un desiderio, ma sforzarsi di mettere «nero su bianco» un’ipotesi di crescita: organizzare idee e mettersi in cammino per dare gambe alla «nostalgia di futuro» che il tempo presente sembrava soffocare o chiudere.
Lo hanno fatto libri e testi che qui vogliamo ricordare: scritti che con un atto di creatività hanno provato a rispondere alle costrizioni del proprio tempo e impegnarsi per superarle.
Quando tra il 1919 e il 1922 John Maynard Keynes [Le conseguenze economiche della Pace; La revisione del trattato di Pace; La riforma monetaria] si sforza di vedere il dopoguerra, non fa i conti con ciò che c’è, ma pone la questione di dare forma a nuove regole. Quando negli stessi anni, Heinrich Mann e Henri Barbusse[“Europe”, 1923] pensano l’Europa e come costruirla, sanno che il primo ostacolo da rimuovere è il muro di incomprensione tra Francia e Germania, ma provare a immaginare una nuova carta d’Europa. In quella nuova carta le prime cose da far saltare sono i confini tradizionali. Dunque raccontare e far vedere una diversa geografia, che dissolve il confine come protezione e come garanzia come propone Lucien Febvre quando scrive la monografia sul Reno [Le Rhin] e prova a dare una nuova definizione di “confine”.
Quando nel 1939, a guerra appena iniziata, Carlo Levi [Paura della libertà] sulle soglie della Bretagna, con le spalle rivolte al mare, vede arrivare la Germania nazista propone di rivedere il peso che i miti hanno nell’immaginario collettivo riprendendo le suggestioni che Georges Georges Bataille e Roger Caillois, [Le College de sociologie] avevano provato a dare forma a un profilo diverso e a pensare alle forme di un nuovo inizio.
La guerra, invece, avrebbe completamente scombinato tutto, più di quanto Scott Fitzeerald [Tenera è la notte] aveva potuto prevedere.
Dopo non poteva accontentarsi di riprendere il discorso laddove si era interrotto anni prima.
Si trattava di ricominciare a pensare come chiedevano Adorno e Horkhemer [Dialettica dell’illuminismo]
Ed ecco allora Albert Camus [Né vittime, né carnefici] chiedere di pensare oltre i vinti e i vincitori; Claude Lévi Strauss [Razza e storia] provare a dare un nuovo profilo al pensiero dando voce alle culture altre, marginali; Emmanuel Mounier [“Esprit”,1945-1950] capire che futuro era trovare il modo di accogliere le parole di chi dal mondo delle colonie provava ad essere protagonista di se stesso, dove il tema del riscatto è anche il percorso i senza voce provano a prendersi lo spazio per farsi ascoltare, come sollecita Franz Fanon [I dannati della terra].
Ma anche trovare le forme per dare spazio ad Andrei Sacharov [Progresso, coesistenza e libertà intellettuale] che provava a pensare un diverso modo di abbassare il livello dei muri. O Edward Said [Orientalismo; Dire la verità] chiedere che si riconosca spazio di dignità per le culture, ma anche che gli intellettuali riprendano una funzione pubblica che non è solo stare al di sopra delle parti – come aveva predicato Julien Benda[Tradimento di chierici], ma fondata sul prendere parte e Zygmunt Bauman [Modernità e Olocausto] sottolineare come dal passato non si esce se non facendo conti radicalmente con i lasciti profondi che le esperienze totalitarie e distruttive lasciano nel comportamento collettivo. La sua idea con è solo che gli intellettuali hanno smesso di fare i guastafeste [La decadenza degli intellettuali] secondo un profilo che ha caratterizzato tante figure (Emile Zola, George Orwell, Hannah Arendt, Jean-Paul Sartre, Pier Paolo Pasolini) ma che quello che stiamo chiedendo loro – e a cui loro spesso si conformano – è stare in un’attraente «zona di confort» che ci consegna ogni giorno la stessa sceneggiatura o riduce la realtà quotidiana è a una serial tv come accade a Truman Burbank protagonista di The Truman Show (1998). E infine James Clifford [I frutti puri impazziscono] a chiedere di non pensare che il futuro fosse delle culture pure o delle identità intoccate. Al contrario pensare il «giorno dopo», voleva dire perseguire e praticare l’impurità.
Sarebbe bene riprendere oggi il filo di quel percorso, o provare a riannodare le preoccupazioni di quella scena che appunto non corrispondeva alla sorpresa di esserci ancora, ma alla volontà e alla determinazione di voler cambiare e modificare radicalmente le regole del gioco.
Pensare il «giorno dopo» non ha mai voluto dire nel corso del Novecento tornare allo status quo ante ma far sì che quella guerra intrapresa, praticata e promossa non rappresentasse una «coazione a ripetere». In altre parole, sminare il terreno – ovvero fare un’azione di bonifica – affinché davvero si possa dire “mai più”.
Questo è pensare il «giorno dopo».
Abbiamo ancora voglia?
O il nostro «giorno dopo» di oggi è essere spaventati dalla sfida di dover pensare un nuovo tempo, così che, messi al bivio la scelta, si traduce nel cercare in tutti i modi di tornare al tempo di prima?