Il 27 gennaio compie 20 anni: è tempo di bilanci e per farli conviene partire da un fermo immagine.
Nei giorni scorsi, il 23 gennaio, a Yad Vashem a Gerusalemme si è svolto il Fifth World Holocaust Forum, intitolato “Remembering the Holocaust: Fighting Antisemitism”. Tra i quarantadue capi di Stato invitati a partecipare, il Presidente della Polonia Andrzej Duda, secondo quanto già annunciato il 9 gennaio scorso, non si è presentato.
La motivazione ufficiale è che Duda non è stato invitato a parlare al Forum, mentre la parola è stata data a tutti i rappresentanti di quei paesi che erano in guerra con la Germania nazista, tra questi l’Unione Sovietica, ragion per cui Vladimir Putin è stato ufficialmente invitato a intervenire.
Nello stesso senso ma partendo da un diverso presupposto, il 21 gennaio, nei giorni immediatamente precedenti l’apertura del Forum a Gerusalemme, Piotr Cywinski, direttore del museo storico di Auschwitz -Birkenau, ha espresso il suo dissenso per il fatto che una memoria che ha un «luogo di memoria» nel cuore dell’Europa, trovi, invece, il suo teatro di riflessione non in Polonia, ma a Gerusalemme.
Non è una questione di geografia. Ma non è nemmeno solo una questione di scontro politico, anche se, indubbiamente, negarlo sarebbe sbagliato.
Il tema riguarda il posto che quel giorno occupa nella memoria pubblica e ciò che quel giorno evoca oggi. La crisi – se di crisi è opportuno parlare – sembra riguardare non tanto i suoi significati, quanto il suo uso e la sua funzione educativa.
Vorrei partire da due osservazioni su cui con precisione invita a riflettere la semiologa Valentina Pisanty in un volume uscito in questi giorni dal titolo I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe (Bompiani). In breve:
La prima: in questi 20 anni la Shoah è stato l’evento più ricordato, oggetto di progetti commemorativi, didattici, televisivi. #Maipiù è un hashtag virale.
La seconda: negli ultimi venti anni l’intolleranza è tornata a essere il sentimento più diffuso, inclusi quei paesi che hanno fatto della memoria della Shoah un simbolo identitario.
La domanda più pressante per Valentina Pisanty, attenta studiosa delle logiche del negazionismo, ma anche delle retoriche in cui si scontrano banalizzazione, negazione, e assolutizzazione della Shoah, è se tale insuccesso sia accidentale (xenofobia e antisemitismo che crescono nonostante le politiche della memoria), o se non sia già insito nelle premesse: per come sono state impostate, quelle politiche non potevano che contribuire agli esiti che hanno prodotto.
Come interpretare allora la relazione paradossale tra l’abbondanza – alcuni sostengono ridondante – di iniziative legate al 27 gennaio (una giornata che spesso nei programmi scolastici e nelle agende pubbliche più che un giorno è una settimana) e la debolezza dell’effetto che queste riescono a produrre in termini di antidoti all’intolleranza?
Credo ci siano almeno tre questioni che riguardano questa crisi.
La prima riguarda che cosa si intenda con memoria e se comunque non si dia una prospettiva di oblio, più che di rimozione.
La seconda questione riguarda come si racconta la storia a partire dai temi che il “Giorno della memoria” agita e propone, ovvero come ciascuna realtà nazionale racconta la sua storia nazionale, nei suoi momenti alti e, soprattutto, nei suoi momenti di ombra dove a prevalere è la violenza esercitata più che quella subita.
La terza questione riguarda le sfide di come racconteremo la storia a fronte di una trasformazione radicale delle nostre società nazionali.
Prima questione.
Ci sono due diverse procedure per dimenticare.
La prima risponde alla categoria del tempo e riguarda quella che drasticamente aveva proposto Franz Kafka nel suo racconto Prometeo, ovvero il percorso verso l’oblio assoluto. È una scena al limite, ma per certi aspetti è parte del ragionamento che oggi va insieme alla domanda se la storia abbia ancora un valore oppure no, se non sia meglio derubricare il passato e provare a ricominciare “daccapo”. Potrebbe essere una tentazione, se non fosse che chi propone di azzerare il passato in realtà non ha un progetto assoluto, ma solo relativo: intende azzerare il passato che lo disturba, per rimettere al centro della scena un passato che ritiene svalutato, dimenticato, “discriminato”. Di solito questo profilo si accompagna a una visione complottista della storia, perché ritiene che quel passato ingombrante di cui ci si intende liberare sia l’effetto di un ricatto di “Perfidi Robinson” esercitato su “ingenui Venerdì”. Di quegli “ingenui Venerdì” – del loro malessere, ma soprattutto della loro condizione di solitudine e di “servitù” di cui si fa paladino – auspica non solo che prendano consapevolezza della propria condizione di “sudditi”, tornando così a essere “padroni del proprio destino ‘a casa propria’”, ma anche si propone come rappresentante di una nuova morale corazzata di “fede politica” che ha al centro, appunto, la proposta della riscrittura di un patto anti-complottista, fondato su una idea compatta di nazione, distinta dal nazionalismo otto-novecentesco.
La seconda è quella che indica Renan nella sua conferenza del 1882 sull’identità della nazione, laddove insiste sulla memoria come somma di ricordo e di oblio: di conservazione del passato ma anche di dimenticanza, in ogni caso della volontà di un gruppo umano, anche attraversato da conflitti, “di voler stare insieme”. Un profilo su cui ha insistito di recente David Rieff nel suo Elogio dell’oblio (Luiss) insistendo, attraverso l’analisi di eventi storici celebri o poco noti e attingendo ampiamente alla letteratura, sulle insidie e i paradossi nascosti nell’esercizio del ricordare.
Rispondere a entrambi questi possibili esiti implica assumere una visione inclusiva della storia che racconti le diverse soggettività. Ovvero, che assuma la storia anche come le storie delle persone nella loro dimensione di fluidità. Storia non lineare, non monolitica, dove un gruppo umano non è solo una storia, bensì la somma e anche la coabitazione di molte storie. Perché come ci ha richiamato con insistenza di recente Chimamanda Ngozi Adichie raccontare un’unica storia crea stereotipi.
Seconda questione
Il 27 gennaio è nato come data civile memoriale per l’Europa da costruire. Era 20anni fa, accadeva a Stoccolma, il 21 gennaio 2000.
L’Europa che stava per nascere aveva bisogno di una “data battaglia” che celebrasse la nuova identità. Qualcosa che assomigliasse al 25 aprile o al 14 luglio. Una data carica di dolore, ma soprattutto che diceva che una nuova vita era possibile e il cui segno era la “rottura delle catene”, la “fine del giogo”.
Quella data parlava all’“Europa dei 9” di allora: apparteneva alla loro storia.
Era solo l’inizio di un percorso che non abbiamo, per davvero, mai intrapreso in questi vent’anni. Quel processo ha mancato la riflessione sul razzismo, che era in noi allora e che ancora oggi ci riguarda. Noi siamo (o forse meglio: diciamo di essere) antirazzisti il 27 gennaio, ma come ci misuriamo con il razzismo che sta dentro di noi la mattina successiva fino al 26 gennaio dell’anno dopo? Un razzismo che investe il nostro agire quotidiano nello spazio pubblico, per le strade, sui banchi di scuola, e che connota il linguaggio che incrociamo ogni giorno nei mezzi di informazione e sui social media?
In ogni caso, venti anni dopo, una parte dell’Europa manda a dire che quel processo non è affar suo. La fisionomia dell’Unione di oggi, ovvero l’“Europa dei 27”, per alcune sue parti, infatti, non ha quella ricorrenza come data memoriale di liberazione e dunque di nuovo inizio. Per un nuovo inizio – sembra dirci – serve aggiornare le metafore.
«Di parte» è diventata un’espressione probabilmente destinata a segnare il nuovo tempo. Non è il sintono di un fenomeno residuale, bensì di un luogo comune a lungo «in sonno» e ora risorto a nuova vita. Un caso di «presente al passato». Presente che si fonda sulla macchina mitologica del complotto attiva non solo in Europa, ma anche nelle Americhe, come nelle culture islamiche e nei paesi arabi, come ha indicato la ricerca sulla diffusione dei “Protocolli dei Savi anziani di Sion” proposta da Pierre André Taguieff anni fa. Un «presente al passato» che è destinato a durare.
Se l’opinione diffusa («diffusa» non vuol dire «di maggioranza», ma vuol dire condivisa da una percentuale consistente d’opinione pubblica) è che il 27 gennaio sia una data “di parte” vuol dire che ciò a cui stiamo assistendo è la crisi o la chiusura di un ciclo. Ciclo che è segnato dai contenuti della “Risoluzione del Parlamento europeo sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”, approvata il 19 settembre scorso. In quella risoluzione il tema non è la negazione del 27 gennaio, ma è la proposta che si individuino altre date comuni, per tutti, in cui segnare il calendario europeo.
Difficile dire se si troveranno. Perché si pensano date di liberazione, non di libertà. Ovvero date che affermano la rottura della sudditanza, ma che non descrivono né fondano gli statuti della nuova libertà per tutti. Allo stesso tempo, per raccontare della libertà, occorre raccontare anche la propria storia «a parte intera», ovvero non raccontare solo l’oppressione subìta, ma anche quella inferta. Ma pochi sono disposti a farlo, perché farlo implica smettere di raccontarsi solo come vittime.
Siamo stati in grado di raccontare il vissuto della nostra violenza di allora? Non solo di quella subita, ma preliminarmente di quella esercitata? C’è mai stato un testo, un film, un serial televisivo (tanto per stare su prodotto di massa) prodotto che come Underground Kustunicsa, (forse il film che con più forza ha messo a nudo il rapporto tra violenza, politica e storia nella esperienza storica della ex Jugoslavia) metta noi italiani a nudo di fronte alla responsabilità della nostra violenza?
La storia si scrive “tutta intera” e “a parte intera”. Nella storia nazionale ci sono i torti subiti. Ma perché quei torti possano essere raccontabili e comprensibili occorre anche affrontare serenamente il capitolo di quelli inflitti. Non riguardano forse le stesse persone se non marginalmente, ma fanno parte integralmente, anche quelli della eredità storica civile, prima ancora che politica, di tutti noi.
È uno dei percorsi che propone Aleida Assmann, nel suo Sette modi di dimenticare (il Mulino) laddove invita a considerare che il fatto che dimenticare non sia eliminare, ma ricollocare in una nova dimensione complessa. Un processo che non cancella ciò con cui si tratta di fare i conti, ma ne depotenzia la carica emozionale. Una pratica fondamentale soprattutto per quelle realtà sociale attraversate da profondi elementi di divisione, ma decise a superare il proprio trauma provando a ricomporre un quadro infranto.
Terza questione
La scomparsa dei testimoni, si dice, potrebbe mettere in crisi il “Giorno della Memoria” perché obbliga a mettere in campo una nuova leva di testimoni dei testimoni. Il punto è un altro. L’Italia degli anni ’20 del XXI secolo è un Paese in cui un numero sempre più consistente di pubblico scolastico ha alle spalle un passato di migrazione che non ha, se non vagamente, un rapporto con la storia al centro del “Giorno della Memoria”.
Con sempre maggior attenzione, si dovrà, allora, partire non dal passato avvenuto in Europa, ma dal sapere quale sia il passato del pubblico scolastico: partire dalle loro storie, dal repertorio di date, geografie e racconti che si portano dentro, per ridefinire relazioni con il passato dell’Europa e collocare la loro memoria famigliare e personale dentro la memoria di questo continente.
Non basta ricostruire la scena del passato qui. Occorre prendere in carico altre storie, leggerle dentro un fenomeno che è accaduto qui, ma anche ritradurlo dentro una memoria che ha le sue radici altrove, in altre discriminazioni, in altre violazioni della persona, in altre storie di violenza, per poi ricalare quelle vicende nel passato inquieto dell’Europa, così da tratteggiare un percorso di memoria al tempo presente dell’Europa che si sta costruendo ora e che abiteremo insieme domani.
Per concludere due suggestioni che propongo di tenere insieme.
La prima riguarda il modello, la condizione culturale (ma anche emozionale), di costruzione della memoria con cui ci troviamo oggi a fare i conti; la seconda riguarda se e in che modo lo studio del passato sia in grado di produrre senso del racconto.
La prima ce la suggerisce un fermo immagine concettuale di Tony Judt nel suo Dopoguerra (Mondadori) quando osserva che nel secondo dopoguerra l’identità d’Europa si divide tra due poli: dal 1945 al 1989 è l’oblio a fare da canone per la costruzione di un’identità dell’Europa, mentre dopo il 1989 riedificare l’Europa passa per “un eccesso compensativo di memoria: una rammemorazione pubblica istituzionalizzata come pilastro fondante dell’identità collettiva” [p. 1021].
La seconda la riprendo da Giovanni Levi. Una volta Levi ha ricordato come ci siano dei terreni difficilmente praticati dagli storici. Uno di questi, diceva, è l’incertezza. A differenza della letteratura dove quel fattore è fondamentale per sviluppare narrazione, racconto, dialogo, la storia non ha colto nell’incertezza un fattore produttore di storia. La letteratura si è sviluppata su indecisione, imprecisione, indefinitezza dell’identità. La ricerca storica ha scarsamente frequentato, e comunque quando l’ha fatto, l’ha fatto con disagio, questi terreni. Lo stesso dicasi, aggiungeva con «la difficoltà di prendere le decisioni» [Levi 1990, pp. 229-230].
Il primo ci dice in quale condizione [per chi? Con quale linguaggio? Rispondendo a quali bisogni? In relazione a quali agende pubbliche?] produciamo racconto della storia?
Il secondo ci dice come [attraverso quali stimoli, facendo quali connessioni, rispondendo a quali condizioni culturali ed emozionali?] proponiamo percorsi di indagine.
La date memoriali hanno prima di tutto un problema di pubblico a cui si rivolgono, di comunità che vi si identifica. Una comunità da coinvolgere, motivare e non destinatario passivo di dati da trasmettere.