Università di Bergamo

La gig economy e la rapida diffusione delle piattaforme digitali sono diventati un tema di enorme rilevanza e sono entrati prepotentemente nel dibattito pubblico e politico. La digitalizzazione, infatti, ormai influenza la vita di un numero sempre maggiore di persone e la fase di emergenza sanitaria e socio-economica scaturita dalla diffusione del Covid-19 ha messo ancora più in evidenza quanto l’uso e lo sviluppo delle tecnologie digitali sia diventato oramai indispensabile e centrale nella nostra vita lavorativa e sociale.

Già prima dell’avvento del Covid-19, le trasformazioni digitali e l’ascesa dell’economia della piattaforma stavano ponendo delle questioni di grande rilievo per il futuro del lavoro e dei sistemi di welfare europei. Quello che è successo con l’arrivo della pandemia sembra accelerare queste tendenze, rafforzando il ruolo delle piattaforme: da questa evoluzione digitale non si tornerà indietro, anche quando questa crisi legata alla pandemia sarà superata.

Sono proprio le piattaforme che ­­– nella loro funzione strategica di interazione tra consumatori e produttori di beni, servizi e informazioni – rappresentano una delle forme più pervasive della digitalizzazione sul lavoro (Srnicek 2017). Negli ultimi anni questo modello di business ha dominato interi settori di mercato ed è balzato all’attenzione del grande pubblico, sia per le varie controversie legali esplose nei diversi paesi europei e negli Stati Uniti e riportate su tutti i media (es. Uber, AirBnB), sia per le mobilitazioni dei lavoratori, in particolare quelli delle piattaforme alimentari (Deliveroo, Foodora, Just Eat, ecc.) che si sono moltiplicate, tanto da dare vita a diverse nuove forme di rappresentanza (es. Riders Union, Camere del Lavoro Autonomo e Precario – Clap).

In questi anni, nel dibattito pubblico da un lato è stata esaltata la capacità delle piattaforme di creare fiducia e facilitare le interazioni: la piattaforma è stata dipinta come uno strumento intelligente che agisce a vantaggio dei consumatori, riduce i costi per imprenditori creativi e offre opportunità di lavoro in autonomia, indipendenza e libertà. Dall’altro, si sono diffuse sempre più contro-narrazioni e visioni critiche che sottolineano i dilemmi normativi creati da tali modelli di business e, soprattutto, le condizioni contrattuali e lavorative legate alla gig economy, narrazioni che hanno fatto diventare i riders un emblema delle nuove forme di precarietà (Pasquale 2016; Seidl 2019).

Si tratta infatti di lavoratori che, pur di lavorare, sacrificano importanti diritti: primo tra tutti, la tutela in caso di malattia e infortunio, il diritto alle ferie pagate, il diritto a un salario minimo garantito. Si tratta di lavoratori che sottostanno a un sistema di controllo digitale, a un sistema reputazionale e di rating della loro performance, al cottimo e a delle decisioni prese attraverso un algoritmo.

Inoltre, mentre la pandemia ha indebolito alcune piattaforme di disintermediazione, come Uber, Lyft e Airbnb, dall’inizio dell’emergenza coronavirus il lavoro per i riders si è moltiplicato e i ciclofattorini hanno consegnato a domicilio non solo cibo ma anche medicine e altri beni essenziali. Nelle strade delle città deserte, i riders hanno svolto un servizio di pubblica utilità, non riconosciuto e in condizioni di scarsa sicurezza e elevato rischio di contagio. La precarietà legata alla gig economy non è emersa oggi, ma gli effetti della pandemia e del lockdown l’hanno certamente rafforzata, facendo sì che questi lavoratori – già a basso reddito e basse tutele – fossero più a rischio di altri.

Descritti da alcuni come simboli della nuova schiavitù – ma da altri come l’avanguardia delle libertà – negli ultimi anni i riders si sono organizzati per chiedere l’abolizione del cottimo e il riconoscimento di tutele e diritti propri, alcuni rivendicando le tutele dei lavoratori subordinati, altri rivendicando la propria libertà e autonomia, sostenendo che se assunti dalle piattaforme finirebbero per avere un reddito ancora più basso. Nonostante le pronunce da parte di vari tribunali in molti paesi che, a seguito di ricorsi, hanno riconosciuto la natura subordinata del lavoro dei riders e, recentemente, la loro richiesta di dispositivi di sicurezza, la politica sta tardando nel dare una risposta regolativa coerente e adeguata alla trasformazione digitale che sta dando nuova forma al mercato del lavoro.

Eppure, la digitalizzazione che sta permeando la nostra vita sociale ed economica non è contingente, ma è qui per rimanere ed espandersi, generando un impatto a lungo termine sul modo in cui il lavoro e la vita sono organizzati. Digitalizzazione e economia della piattaforma hanno già innescato processi che hanno profonde conseguenze sulla qualità e sull’organizzazione del lavoro, sulla sua sicurezza e sul coordinamento e monitoraggio dei rapporti di lavoro. Per questa ragione, essa richiede un profondo ripensamento della regolazione del lavoro e della previdenza sociale. Poiché le politiche di welfare – dalle pensioni alle indennità di disoccupazione e di sostegno al reddito, dalla copertura contro le malattie professionali, passando per il compenso minimo orario stabiliti dai contratti collettivi nazionali del lavoro – sono state sviluppate nel secondo dopoguerra sulla base di rapporti di lavoro standard, la loro inadeguatezza e distorsione di fronte alle nuove esigenze dei lavoratori è sempre più manifesta e mal tollerata.

I processi di digitalizzazione richiedono di essere strutturalmente supportati da una risposta politica coordinata e trasversale su diversi ambiti istituzionali e arene di policy, tra cui quelle del mercato del lavoro, della formazione e del welfare. A tale scopo, è necessario riflettere sulla risposta politica e sulle misure concrete che dovranno necessariamente essere implementate per pensare ad un nuovo patto, una nuova carta dei diritti fondamentali del mondo del lavoro che possa abbracciare anche i lavoratori atipici e i lavoratori di piattaforma.

Il futuro e la natura del lavoro rimangono una questione di scelte politiche e di azione sociale, non sono il risultato di un algoritmo (Hyman 2018). È perciò indispensabile discutere di come la platform economy stia cambiando il mercato del lavoro, i contesti e le pratiche lavorative, di quali sono i diritti non riconosciuti e di quali politiche potrebbero garantire migliori condizioni per questi lavoratori. Partire dall’esperienza dei riders – una categoria che si è organizzata collettivamente e che ha dato vita a movimenti di protesta per chiedere diritti e sicurezza – ci permette di comprendere il potenziale organizzativo dei lavoratori della gig economy e la loro capacità di rivendicazione dal basso, nonché di riflettere sulle forme di negoziazione più adatte a far dialogare i lavoratori della gig economy, le multinazionali e la politica.

 

Riferimenti bibliografici

Hyman, Louis (2018): How American Work, American Business, and the American Dream Became Temporary, Viking.

Pasquale, Frank (2016): Two Narratives of Platform Capitalism. In Yale Law & Policy Review, pp. 309– 319.

Seidl, Timo (2019) The Comparative Political Economy of Platform Work. Unpublished manuscript

Srnicek, Nick (2017): Platform Capitalism. Cambridge: Polity.

Condividi
La Fondazione ti consiglia
pagina 90477\