L’articolo qui riportato è uscito in forma integrale il 15 gennaio 2019 sul Corriere della Sera col titolo “Il fantasma perpetuo del fascismo”
L’editore Garzanti ha recentemente pubblicato un volumetto dal titolo Il fascismo degli antifascisti che raccoglie brani di Pier Paolo Pasolini, tratti da Scritti corsari. Sono articoli usciti fra il 1962 e il 1975, perlopiù sul Corriere della Sera, dai quali emerge un dato molto chiaro: la tendenza degli scrittori italiani ad immaginare un fascismo mai esistito non è nata oggi e ha, al contrario, illustri predecessori.
Nel dicembre del 1973 Pasolini definì il regime «un modello reazionario e monumentale» che era restato «lettera morta» e notò che «la repressione si limitava ad ottenere» l’adesione delle masse «a parole». In un’intervista a Massimo Fini del dicembre 1974 spiegò: «io credo profondamente che il vero fascismo sia quello che i sociologi hanno troppo bonariamente chiamato la società dei consumi». A suo avviso, infatti, il ventennio totalitario non era stato capace di trasformare la società italiana mentre il fascismo più autentico si insinuava nelle democrazie moderne nella forma di un pervasivo e devastante consumismo. Chi ricordasse il mito dell’austerità, le politiche autarchiche contro le sanzioni volute dalla Società delle Nazioni in risposta all’invasione dell’Etiopia, o i «cazzotti alla borghesia» sferrati nel 1938, non capirebbe di cosa parlava il poeta friulano. Eppure, prima e dopo Pasolini, autorevoli intellettuali utilizzarono l’esperienza fascista per descrivere realtà politiche molto diverse. A ben guardare sono piani intrecciati: la superficialità dell’analisi storiografica, l’uso improprio del termine, l’allarme antifascista di fronte a fenomeni di autoritarismo.
È possibile individuare due grandi idee dietro questa visione della storia del Novecento. La prima è la convinzione che fra il totalitarismo e la democrazia liberale non vi siano grandi differenze. Già alla fine della seconda guerra mondiale, i filosofi della Scuola di Francoforte sostennero che il fascismo era un’espressione dell’illuminismo e della società di massa, la manifestazione di un mondo dominato dalla ragione che aveva alienato l’uomo, trasformandolo in una merce. Da eredi della tradizione marxista, impegnati nella diffusione di una cultura critica del capitalismo, immaginavano che la violenza espressa nelle democrazie occidentali non fosse meno distruttiva di quella vissuta sotto uno Stato dittatoriale. In Italia la Scuola di Francoforte ottenne un certo seguito, ma l’interpretazione proposta da Pasolini non derivò soltanto dalla riflessione sul consumismo. L’idea che il regime di Mussolini fosse uno Stato fondato sulla retorica, il frutto di un paese arretrato e piccolo borghese fu sostenuta fra i primi da Piero Gobetti, alla fine del 1924. Il giovane intellettuale torinese pensava che si trattasse «dell’autobiografia della nazione», del prodotto della morale corrotta di un «paese di cortigiani». Da allora questa interpretazione ebbe una grande fortuna, soprattutto a sinistra. Cinquanta anni dopo, nel 1975, nel decimo volume della monumentale Storia d’Italia pubblicata da Einaudi, Alberto Asor Rosa scrisse che il fascismo era la «la fogna» in cui era confluito «l’aspetto arcaico, arretrato, provinciale e schizofrenico della cultura italiana postunitaria».
Pasolini e Asor Rosa, Norberto Bobbio e molti altri, non si percepivano italiani come i loro concittadini. Descrivevano l’esperienza fascista come espressione della parte peggiore e maggioritaria del paese e sé stessi come i rappresentanti di quella migliore e minoritaria. In effetti, tutto ciò suscita un certo stupore. I rapporti di Bobbio con il regime fascista sono noti. Da parte sua, Pasolini, nell’estate del 1942, scriveva sulla rivista «Architrave» del Gruppo universitario fascista di Bologna e nell’autunno di quell’anno fu fra i fondatori di «Setaccio», periodico della Gioventù Italiana del Littorio. Si dirà che tutti i giovani furono fascisti, con maggiore o minore convinzione, perché non avevano alternative. In realtà nessuno li obbligò a fondare riviste, a collaborare ad iniziative culturali, a far parte della élite culturale del paese e ovviamente vi fu chi non lo fece o perché recluso in prigione o semplicemente perché si astenne dal legare il proprio nome alla cultura di un regime dal 1938 ufficialmente antisemita.
In ogni caso, perché non prendere sul serio il fascismo? Perché riconoscendo un oggetto storico dotato di sue caratteristiche peculiari, gli intellettuali avrebbero dovuto spiegare come mai dal 1922 al 1943 gli italiani gli avevano offerto il proprio consenso. Nel dopoguerra, e negli anni a venire, non lo fecero e scelsero di scolorire i tratti specifici dell’esperienza fascista, di sottrarre al regime gli attributi che ne caratterizzarono l’individualità storica.
È un fenomeno evidente anche oggi. Eppure gli storici fanno il loro lavoro mostrando che il regime che prese il potere nel 1922 non fu un fenomeno politico reazionario, ma il prodotto di una concezione moderna e assoluta della politica. Con buona pace di Umberto Eco, che nel 1995 sul «New York Revew of Books» immaginava un Ur-fascismo eterno, una specie di Highlander, il regime mussoliniano non fu tradizionalista. I fascisti ebbero nei confronti del passato un atteggiamento strumentale: dal mito di Roma a quello del Risorgimento piegarono la storia a loro uso e consumo per presentarsi al mondo come i creatori di una nuova razza di dominatori. Furono i seguaci di una religione politica espressione di miti, di riti e di simboli che sacralizzò lo Stato assegnandogli una funzione pedagogica per creare un uomo nuovo. Certamente furono razzisti e antisemiti, ma sia il razzismo che l’antisemitismo nacquero ben prima del 1922, caratterizzarono i paesi civili e democratici e sono presenti oggi in Stati che con il fascismo non hanno nulla a che vedere, dove il pluralismo è tutelato dalla legge.
Tutto questo per molti scrittori non è rilevante. Ce lo conferma, da ultima, Michela Murgia, in un libro appena uscito da Einaudi, Istruzioni per diventare fascisti, dove sostiene che «manipolando gli strumenti democratici si può rendere fascista un intero paese senza nemmeno pronunciare mai la parola fascismo». Del resto, nelle prime righe del volume, la Murgia dichiara il suo obiettivo polemico: «Scrivo contro la democrazia perché è un sistema di governo irrimediabilmente difettoso», «la verità è che è il peggiore e basta, ma è sempre difficile dirlo apertamente». Sarà sarcasmo? La verità è che con la storia del Novecento, si diventa tutti allenatori della Nazionale quando gioca l’Italia.
Per fortuna, la democrazia liberale, democratica e antifascista, che ha sconfitto il regime totalitario alla fine della seconda guerra mondiale, quella per la quale abbiamo scritto la Costituzione, non è il Venezuela. Ne siamo orgogliosi.