Estratto dal libro L’Italia che lavora. Persone, flessibilità, prospettive, edito da Fondazione Giangiacomo Feltrinelli in collaborazione con The Adecco Group.
L’inarrestabile aumento delle forme contrattuali atipiche, il ricorso distorsivo al lavoro autonomo […], l’agglomerarsi del potere economico intorno a strutture mastodontiche capaci di inseguire i mercati più convenienti, sono tutti fattori che complicano vertiginosamente l’agenda pubblica e quella giuslavoristica.
Persino sotto il cielo della costituzione e dello Statuto dei lavoratori, degli astri che avevano permesso una declinazione fortemente promozionale del garantismo, si iniziano ad annidare interpretazioni di segno opposto: in nome dell’identico principio dell’uguaglianza sostanziale si ritiene che certe previsioni […] abbiano comunque contribuito (è il caso dell’art. 18 St. lav.) a scavare un fossato incolmabile tra insiders e outsiders, tra inclusi ed esclusi, tra chi sta dentro (le tutele, il mercato, i diritti) e chi sta fuori[1].
Con i nuovi esclusi che sembrano scontare «un tasso di inutilità sociale molto più elevato dei loro predecessori ottocenteschi: non servono al mercato, in quanto relegati in uno status di non consumatori, ma nemmeno vengono a formare un esercito industriale di riserva, dal momento che nella seconda modernità la produzione sembra aver bisogno di un numero decrescente di addetti e si preoccupa soprattutto di potenziare il proprio corredo tecnologico e diminuire il costo del lavoro»[2].
I tradizionali baluardi del garantismo laburista – il collettivo e lo statuale – non godono, del resto, di buona salute: lo Stato «non è deceduto, ma [sicuramente] è azzoppato»[3]: incrinate – dalla crisi interna e dal volto di un’economia incurante dei confini nazionali – le sue capacità di integrazione sociale, capacità in buona parte legate alla tenuta del legame territorio-sovranità[4], lo Stato sembra riabilitare […] il proprio volto di tutore della sicurezza tout court. Parallelamente, posto di fronte al rischio di fratture all’interno della sempre meno omogenea caratterizzazione del lavoro, il sindacato sconta la difficoltà a raggiungere ampi strati di lavoratori, proprio in ragione del loro profilo occupazionale intermittente e mutevole.
[In questo quadro pare che] il lavoro corra il rischio di perdere la propria centralità di veicolo privilegiato per la realizzazione di certi valori (autonomia, libertà, dignità) posti a fondamento della vita democratica. Cercare altrove le risposte per rendere ancora plausibili ed effettivi quei valori può allora esprimere anche una scelta di resistenza alla prepotenza prevaricatrice del mercato o, più realisticamente, per trovare un momento di raccordo tra mercato e tutele: reddito di cittadinanza, welfare mix, flexsecurity possono cioè essere dipinti come strumenti di rottura col passato, ma nondimeno incaricati di rinnovare, accanto e oltre il lavoro, la centralità della persona. Che si immagini un reddito minimo garantito, un concorso (virtuoso) tra privato e pubblico sul fronte delle politiche sociali, o che si ritenga di poter compensare la flessibilità in ingresso e in uscita attraverso una corrispondente security, interessata a riqualificare e a creare nuove opportunità di impiego, può anche costituire una scelta sensata (o, meno ottimisticamente, obbligata) per gli ordinamenti[5]. Affiancata, però, da qualche clausola di cui si dovrebbe asserire l’inderogabilità. In particolare, l’eventuale distanza tra intenti dichiarati e risultati conseguiti, non può, in tali ipotesi, essere archiviata tra gli inconvenienti, più o meno usuali, più o meno fisiologici, del gioco socio-politico, visto che a essere coinvolti sono beni giuridici dal cui rispetto dipende la stessa possibilità di qualificare come democratica una convivenza. Al tempo stesso, ritenere che possano essere immaginate e sperimentate nuove modalità di intersezione tra mercato e regolazione, tra etica del lavoro ed etica del profitto, tra doveri e diritti, rappresenta il modo per non arrendersi all’idea che si stia consumando un «ribaltamento totale di prospettiva», responsabile di aver trasformato il lavoro in una semplice «variabile dipendente» del gioco economico[6] e per non cedere a «quella convinzione, spesso rappresentata nel corso dell’età moderna, secondo cui economia e politica apparte[rrebbero] a due mondi diversi: il primo fatto di dure oggettività, di rapporti naturali e necessari, il secondo fatto di volontà artificiali, più o meno ideologicamente determinate»[7].
Sarebbe, ad esempio, necessario che l’agenda pubblico-politica non limitasse la ‘questione-lavoro’ all’esame dei soli due estremi della catena occupazionale – le tipologie di contratto individuale di lavoro, da un lato; il sistema degli ammortizzatori sociali, dall’altro – senza un’adeguata considerazione di tutto ciò che sta in mezzo, delle politiche e degli attori, privati e pubblici, che dovrebbero costituire il fulcro di una scommessa regolativa, tanto complessa quanto indispensabile. Viceversa l’evenienza di una lotta tra deboli pare difficilmente arginabile: la pellicola, bellissima e scarna – Due giorni e una notte – sintetizza meglio di tante parole il peso di un presente che rischia di non riscattarsi.