Quando il dibattito pubblico intercetta il tema della scuola in Italia, lo sconforto è dietro l’angolo. Le cassandre del tramonto della cultura umanistica cantano la loro litania funebre che, in parte raccoglie un’eredità elitista che poco ha a che fare con l’esperienza quotidiana degli studenti e delle studentesse nel mondo contemporaneo. I dati delle indagini internazionali (i dati OCSE PISA su tutti) ci dicono che il nostro sistema educativo è “scarsamente performante” tanto rispetto ai paesi dell’area OCSE quanto ai più vicini paesi dell’Unione Europea. Su questo punto spesso si concentrano le critiche agli insegnanti e alla scuola pubblica, considerati come inefficaci ed inefficienti. Le soluzioni invocate a gran voce? La “scuola digitale”, la “scuola 2.0” o, ancora, una maggiore severità nelle procedure selettive del corpo docente. Neppure quindici anni or sono, le soluzioni erano le “tre I: Inglese, Informatica, Imprenditoria”; in continuità, con la legge 107 del 2015, la soluzione era l’alternanza scuola-lavoro, perché la scuola è autoreferenziale e chiusa all’esterno. Vox clamans in deserto, qualcuno si rende conto che la scuola è ancora un fattore di coesione, inclusione e – forse – la sola opportunità di mobilità sociale in un sistema socio-economico bloccato; si ha l’impressione che queste voci siano però soffocate dal rumore degli slogan stilizzati, dall’eco di scelte iper-semplicistiche spacciate come panacea, da una sorta di rifiuto di ogni forma di autorità morale e culturale.
Se cerchiamo di leggere seriamente gli effetti degli ultimi anni di riforme della scuola, scopriremo che l’autonomia scolastica ha inciso sul modo di organizzarsi e di lavorare delle scuole ma di fatto non parrebbe aver impattato sugli apprendimenti. Che l’apertura a modelli di governance “a rete”, aperti al territorio e a soggetti di vario tipo, non abbia implicato automaticamente migliori risultati in termini di inclusione, apprendimenti, riduzione delle diseguaglianze (anzi, in certi casi la povertà di capitale sociale ha generato fenomeni contradditori e difficilmente valutabili nei loro effetti).
Scopriremo che gli interventi sulle secondarie superiori (il riordino dei licei, degli istituti tecnici e degli istituti professionali avvenuto nel 2010) hanno contribuito a cambiare la struttura delle iscrizioni, con una quota crescente di studenti che scelgono uno dei tanti licei (circa il 55% dei neo iscritti nel 2018/2019), un 30% che si orienta verso un tecnico ed una quota residuale verso un professionale. Vedremo anche che la scelta dell’indirizzo di studi secondario superiore dipende in modo consistente dalla condizione socio-economica e culturale della famiglia di origine degli studenti. Scopriremo anche come la scelta dell’indirizzo di studi superiori ha poi un significativo impatto sulle probabilità di abbandonare precocemente gli studi e, sul lungo termine, sulle probabilità di iscriversi all’università, disegnando una sorta di catena lunga delle diseguaglianze educative cumulate nel percorso scolastico.
C’è da aggiungere come poi i tagli lineari all’istruzione non gravano su tutti gli individui (o su tutte le famiglie) allo stesso modo. Togliere “x” a chi possiede 100 e togliere la stessa quota a chi possiede 10 fa molta differenza. Ogni taglio all’istruzione e alla cultura implica una crescita dei divari (sociali, territoriali, ecc.) difficili da recuperare.
Solo tre anni fa, si celebravano i cent’anni di “Democracy and Education” di John Dewey. Forse il decisore politico dovrebbe dare una rispolverata all’insegnamento ed ai buoni consigli di Dewey quando richiamava la necessaria unitarietà della geografia, della storia, delle scienze. Si dovrebbe riprendere in mano l’idea dell’integrazione dei dualismi (astratto-concreto, teorico-pratico, ecc.), in vista di un apprendimento esperienziale e relazionale. La democrazia non sarebbe oggetto di apprendimento ma componente dell’apprendimento stesso. Forse il linguaggio di Dewey può apparire desueto, può essere aggiornato (in termini di didattica delle competenze invece che delle discipline), può essere attualizzato rispetto all’ecosistema digitale entro cui tutti (mondo scolastico incluso) ci muoviamo, ma di sicuro ci offre una direzione, una visione sufficientemente ampia da non arenarsi alle difficoltà della prima secca.
È quindi urgente tornare a riflettere sul ruolo della scuola nelle democrazie contemporanee, messe a dura prova da vecchie e nuove tendenze autoritarie, conservatrici, di chiusura ai diritti civili e spesso anche ai diritti umani più in generale. Ed è altrettanto urgente richiamare gli effetti positivi della progressiva espansione dei sistemi di istruzione nei decenni passati: l’istruzione di massa prima e l’istruzione universale dopo (i tassi di analfabetismo si sono ridotti in modo consistente arrivando a quote ridottissime), con l’inclusione progressiva di tutte le classi sociali, almeno nell’istruzione dell’obbligo, con un epocale sorpasso di genere (numerose fonti attestano una maggiore partecipazione femminile, anche ai livelli più elevati, rispetto a quella maschile), sono progressi sociali che non possono essere dimenticati o, ancor peggio, taciuti. Inoltre, non vanno sottovalutati gli aspetti extra-economici come quelli che legano ad una maggiore istruzione una maggiore partecipazione politica, una maggiore fiducia, un miglioramento degli indicatori di civicness. Tutto ciò è segno che una delle principali funzioni positive della scuola sia quella di educare alla cittadinanza. Infine, va valorizzato il carattere di “liberazione” indotto dall’istruzione: un cittadino istruito è più partecipe, vive meglio, fa scelte (di studio, di vita, di lavoro) più consapevoli, è più capace e più libero di esprimersi. Non negando gli effetti economici indotti dall’accumulazione di “capitale umano”, sarebbe auspicabile fare scelte politiche in ambito di istruzione che guardino all’inclusione, riducano le diseguaglianze, rendano gli individui liberi di seguire consapevolmente le proprie inclinazioni e passioni (troppo spesso i percorsi educativi sono condizionati dalle origini sociali). È evidente che il sistema educativo allo stato attuale è in forte affanno (Norberto Bottani si chiede addirittura, se sia necessario un “requiem per la scuola”); che le logiche del mercato, del neoliberismo e della valutazione orientata alla competizione, stiano stritolando lo spazio di azione entro cui scuole ed insegnanti si muovono; che il “nuovo mondo” digitale costringa a ripensare profondamente contenuti e pratiche dei processi educativi. Sicuramente il dialogo con il “mercato” dovrà essere uno dei pilastri del dibattito a venire (certamente non l’unico), così come una profonda revisione dei cicli, delle strutture dei sistemi educativi (per es. l’attuale suddivisione in filiere), delle “discipline” (si potrà ancora parlare di discipline?) dovranno essere oggetto di un serio e profondo ripensamento. Non possiamo prevedere dove e in che modo si orienterà il dibattito su questi temi, ma crediamo fermamente che, qualunque via si intraprenda, sia da riconoscere e rilanciare per l’istruzione il suo ruolo di formazione individuale, di spinta verso l’uguaglianza democratica delle opportunità (per richiamare Rawls), di sviluppo dell’autonomia e della soggettività.