Le elezioni in Emilia-Romagna hanno segnato un risultato di rilievo, per la sua portata e per i nuovi equilibri politici che ha delineato.
In primo luogo, non si può non notare che Salvini è stato fermato, grazie al sussulto democratico dell’antico cuore rosso che, chiamato all’appello e risvegliato dalle sardine, si è recato alle urne per dire “no pasaran”. Il dato saliente, a questo proposito, non è tanto che è Salvini ad avere perso, quanto che è il centro-sinistra ad avere stravinto, rovesciando ogni pronostico. Stefano Bonaccini, governatore uscente, ha raccolto quasi un milione e 200 mila voti, contro il milione e passa di Lucia Borgonzoni, ottenendo un risultato di poco inferiore (16 mila voti) a quel clamoroso en-plein delle europee del 2014 e “riportando a casa” più di 300 mila voti che erano stati persi il 26 maggio scorso. La coalizione di centro-destra, da parte sua, ha guadagnato appena 17 mila voti, che non le sono statti, però, sufficienti per conquistare il primato regionale. Si può quindi dire che l’assalto leghista al fortino rosso, pertanto, è stato respinto.
Il Partito democratico ne esce tonificato, anche se è il governatore ad attrarre più voti delle liste che lo sostenevano. Se è vero, infatti, che la Lista Bonaccini – pensata per attrarre i voti di chi non voleva dichiararsi esplicitamente a favore del Pd – porta a casa un 5.8% (e le altre quattro liste prendono complessivamente il 7,6%, di cui il 3,8% alla Emilia-Romagna Coraggiosa di Elly Schlein, che raccoglie da sola ben 22 mila preferenze, un record), è pur vero che il Pd racimola un dignitosissimo 34,7% dei voti, di cui ora può andare giustamente fiero. Certo, è stato il richiamo “ancestrale” a difesa dei valori di un modello che ha contato, ma tant’è, la chiamata all’appello ha funzionato. La Lega, dal canto suo, ottiene il 31,9% dei consensi, mentre i Fratelli d’Italia si attestano all8,6%. Ciò che indica un solido radicamento del centro-destra in regione anche se, sicuramente, il richiamo “sovranista” è stato respinto. Così come è stato quasi annientato l’altro richiamo populista, quello del M5S, che ottiene il risultato più negativo della sua breve storia, attestandosi al 3,5% dei consensi.
Tutto è bene quel che finisce bene, dunque? Se l’Emilia Romagna, nel suo complesso, torna ad essere “rossa” è anche vero che è alla distribuzione territoriale del voto e tra i ceti che ora si dovrà prestare attenzione, se il Pd vorrà riconquistare appieno il suo “blocco sociale”, per guardare oltre i confini regionali. A ben guardare, infatti, vi sono fratture che sono rimaste e reclamano una risposta: il divario centro/periferia, lo iato tra ceti urbani, suburbani e rurali. E c’è una polarizzazione che resta la cifra di questa Italia politica.
Nei comuni con meno di 5000 abitanti, ad esempio, il centro-destra è maggioritario (con una media vicina al 55%), come in quelli fino a 15 mila abitanti (con una media del 45%), mentre nei comuni più grandi è il Pd a prevalere, largamente (nelle città con più di 60 mila abitanti il Pd arriva al 50,8%, in media). La Lega appare molto forte a Piacenza e Parma, in provincia, nei piccoli comuni appenninici e della pianura lungo il Po. Il centro-sinistra, da parte sua, raccoglie quasi il 60% dei voti lungo la via Emilia, da Reggio fino a Rimini – nelle realtà urbane e peri-urbane. Il M5S, infine, sparisce nei comuni appenninici e in quelli più occidentali, mentre raccoglie appena qualcosa nelle realtà peri-urbane.
Esiste quindi una frattura territoriale che appare evidente – non solo nelle percentuali ma anche nell’affluenza, maggiore nei centri e minore nelle periferie – ed è a questa che il centro-sinistra dovrà fare attenzione se vorrà trarre una lezione rispetto alle sue prossime scelte politiche. I ceti urbani e suburbani meno protetti sono dunque “tornati all’ovile” sotto l’ala protettrice del centro-sinistra, evidentemente rifiutando il richiamo populista sovranista e securitario di Salvini. E se, in questo, è stato il liquefarsi della proposta 5 Stelle a favorire il ricollocamento a sinistra, non di meno vi sono fasce sociali – giovani e meno giovani, urbane, precarie – che oggi reclamano attenzione. I ceti urbani progressisti hanno trainato una riscossa sociale che – al di là dell’apparente “buonismo” del richiamo delle sardine – oggi esprime bisogni di rappresentanza e di proposta di cui un rinnovato centro-sinistra dovrà farsi carico. Guai se il Pd interpretasse questa sua riconquistata fiducia come un mandato elitario, delle realtà urbane più “avanzate” e “moderne” contro i “lasciati indietro”. Ciò che il voto esprime è che questo non è certo un retour à la normale. C’è un vuoto politico che va colmato. L’arrembaggio salviniano ha permesso di sgombrare il campo dall’equivoco di un populismo “né di destra né di sinistra”: il populismo, che fa leva sulla chiusura identitaria e anti-multi-culturale, è autoritario, e quindi di destra. Solo una proposta “di sinistra” può essere una risposta.
C’è un dato che mostra un tratto tutto “novecentesco” di questa crisi della politica: che il ceto medio-basso di per sé non è un baluardo della democrazia e che, di fronte all’incalzare dei ceti inferiori, non esita a preferire soluzioni “forti” e illiberali. Con la differenza che in una regione avanzata come l’Emilia-Romagna, ci sono oggi “due” ceti medi e medio-bassi: quelli urbani, protetti, cosmopoliti e globalizzati e, in definitiva, progressisti, e quelli sub-urbani, non protetti, che nella globalizzazione vedono un pericolo e che preferiscono “chiudersi”. I ceti periferici hanno trovato una risposta, ancorché illusoria, nel populismo leghista mentre quelli urbani e suburbani, soprattutto i meno protetti, hanno dato ancora debole sostegno ai 5 Stelle o non sono andati a votare, disillusi dalla chiamata populista “egalitaria” dei pentastellati. Larghe fasce sul territorio non si sono espresse, non trovando evidentemente rappresentanza. E le fratture sono ancora lì: ora che il fortino è stato difeso, che si aprano i ponti levatoi, che si favoriscano quelle politiche d’inclusione che avevano fatto forte il modello emiliano d’un tempo. L’occasione è qui e ora. Prima che la cavalcata salviniana riprenda fiato e dai monti scenda nelle città. Le elezioni ci hanno fatto capire qual è la distanza tra i “due” ceti medi e se l’Italia deve, un secolo dopo, preoccuparsi di nuovo di un’involuzione illiberale della sua classe media.