Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Il libro dell’antropologo David Graeber “Debito: i primi 5000 anni” (2012) inizia con un vecchio proverbio: “Se devi alla banca centomila dollari, la banca ti controlla. Se devi alla banca cento milioni di dollari, tu controlli la banca”.

Data l’importanza della multinazionale FCA, ex FIAT, nell’economia italiana, è difficile dire “chi controlla chi”. L’industria dell’automotive pesa per il 6,2% del PIL e il 7% dell’occupazione nell’industria manifatturiera.
Per quanto FCA abbia sede fiscale a Londra e legale nei Paesi Bassi, la sede italiana della multinazionale, FCA Italy, impiega 55.000 persone; considerando le oltre 10.000 società fornitrici, si arriva a oltre 200.000 lavoratori.
Per questo non sorprende che, di fronte a un crollo del 97,5% delle vendite di auto in Italia nel mese di aprile, si ponga il problema di come evitare il tracollo dell’intera filiera, e con esso il destino di centinaia di migliaia di famiglie italiane.

Lo scorso 16 maggio, FCA Italy ha dichiarato di voler accedere alle garanzie disposte dal decreto Liquidità. Il decreto stabilisce che le imprese possano richiedere liquidità fino al 25% del fatturato complessivo. La compagnia avrebbe quindi richiesto l’apertura di una linea di credito pari a 6,3 miliardi di euro per una durata di tre anni garantita da Sace, società del Ministero dell’Economia e Finanze.
Pur essendo negoziato con Intesa Sanpaolo, una banca privata, l’assistenza al credito di Sace fa sì che il maxi-prestito avvenga a condizioni più vantaggiose. Il gruppo ha presentato la soluzione come “innovativa”, dato che la Banca erogherebbe i versamenti direttamente ai fornitori della filiera mediante conti correnti dedicati. L’accordo, continua la nota, “riconoscerebbe il ruolo del settore automobilistico nazionale, di cui FCA, insieme ai fornitori
e ai partner è il fulcro, nella ripartenza del sistema industriale italiano”.

Nonostante i propositi esposti nella nota, il piano è stato accolto in Italia da numerose critiche. Le perplessità riguardano tre questioni principali: la necessità di nuova liquidità; il problema dell’elusione fiscale; le ripercussioni sui livelli di occupazione.
In primo luogo, diversi politici e commentatori hanno sollevato dubbi circa le finalità del piano di credito. I vari decreti contengono norme finalizzate a evitare possibili abusi nell’erogazione di credito, prevedendo ad esempio il divieto di distribuire dividendi entro un anno dall’inizio del credito e il diritto ad accedervi esclusivamente alle imprese residenti in Italia.
Tuttavia, tra gli obblighi non viene richiesto alcun controllo sullo stato della liquidità e sulla possibilità di distribuire dividendi oltre il termine di un anno. In molti, tra cui Carlo Calenda, hanno fatto notare che la FCA-Chrysler, capogruppo di FCA Italy, disporrebbe della liquidità per sostenere il gruppo.

Lo scorso 31 marzo la trimestrale consolidata di FCA riportava una liquidità in cassa pari a 12,3 miliardi di euro, oltre a una linea di credito “revolving” disponibile per 6,25 miliardi.
Se avesse utilizzato le sue risorse, FCA avrebbe dovuto emettere un bond a condizioni meno vantaggiose della liquidità che otterrebbe attraverso la garanzia Sace.

Secondo Massimo Franchi, la linea di credito servirebbe a saldare commesse che, dati i tempi di pagamento di circa 180 giorni, si riferiscono al periodo antecedente alla pandemia.

Se così fosse, la liquidità aiuterebbe FCA Italy a pagare i debiti pre-esistenti verso i suoi venditori, finanziando il cosiddetto “capitale circolante”. La società controllata in Italia potrebbe richiedere la linea di credito per abbassare il costo del rifinanziamento, dato il vantaggio di accedere alle garanzie di stato. L’operazione, ricorda lo stesso Calenda, darebbe liquidità all’azienda in vista della fusione con il gruppo francese PSA. Per il 2021, è infatti previsto un maxi-dividendo straordinario dal valore di 5,5 miliardi di euro.
La liquidità del gruppo servirebbe a quel punto a finanziare il dividendo prima della delicata operazione con PSA.

I decreti, che prevedono il limite di un anno e non pari all’intera durata del credito, non potrebbe impedire la distribuzione del dividendo.

Una seconda questione, collegata alla prima, è la possibilità di fornire aiuti economici alla controllata di una multinazionale che si è spostata all’estero in cerca di condizioni fiscali più favorevoli.
Secondo gli studi di Gabriel Zucman, nel 2017 il nostro paese ha perso fino a 6 miliardi di euro a causa dell’elusione fiscale da parte delle multinazionali. La prima versione dei decreti non prevedeva alcuna restrizione per le società capogruppo, ma solo per le controllate (in questo caso FCA Italy). Inoltre, non esiste una definizione concordata dei paradisi fiscali.

Grazie a un emendamento al decreto Liquidità presentato da Leu alla Camera, l’Italia sarà tra i pochi paesi europei ad escludere dagli aiuti per l’emergenza Covid-19 le compagnie che siano registrate o che abbiano sussidiarie nei paradisi fiscali. Tuttavia, la lista dei paesi “non cooperativi a fini fiscali” stabilita a livello europeo comprende solo dodici paesi extra-comunitari, escludendo quindi zone “grigie” come il Belgio, l’Irlanda, il Lussemburgo, Malta e i
Paesi bassi, che da soli sono responsabili per l’80-90% dell’evasione fiscale nell’Unione Europea.

Un terzo nodo riguarda i piani del gigante dell’auto per gli investimenti e l’occupazione. La condizionalità legata agli aiuti potrebbe essere uno strumento efficace per assicurarsi che le multinazionali investano in Italia.
Il decreto Liquidità richiede esplicitamente che le compagnie che ricevono aiuti si impegnino a “gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali” e a utilizzare gli aiuti per gli stabilimenti localizzati nel paese.
Il comunicato di FCA del 16 maggio conferma il piano triennale di investimenti in Italia per un totale di 5 miliardi nel triennio 2019- 2021. Nonostante questo, secondo alcuni la formulazione del decreto rimane vaga, implicando solo la negoziazione con i sindacati, e non impegni puntuali sul mantenimento dei posti di lavoro.
Marco Bentivogli, segretario di Fim-Cisl, si è detto soddisfatto dell’accordo sul prestito, che salverebbe dipendenti e fornitori dell’intera filiera. Dall’altro lato, Giuseppe Berta, storico dell’industria, fa notare che la fusione con PSA cambierà le carte in tavola. Visto che dall’anno prossimo “la guida strategica sarà nelle mani dei francesi”, e che il prossimo piano industriale sarà elaborato dal nuovo gruppo, ci sono ben poche garanzie sugli impegni presi nella fase corrente.

Come assicurarsi che la liquidità serva a salvare i piccoli e medi fornitori dell’industria e preservare i livelli occupazionali, evitando che sia usata per distribuire maxi-dividendi?

Due emendamenti di Leu al decreto Rilancio miravano all’estensione del divieto sui dividendi per tutta la durata del prestito, ma sono stati bocciati dal MEF. È passato invece un emendamento per il divieto di delocalizzare alle imprese che  usufruiscono delle garanzie statali. Per quanto riguarda l’elusione fiscale, la via appare più stretta: includere nella lista dei paradisi fiscali i paesi UE con legislazioni di favore non è un’opzione politicamente navigabile, dato che la proposta troverebbe il veto di alcuni paesi in sede di Consiglio Europeo.
La situazione a livello fiscale mette in luce le storture strutturali del mercato unico.

Lo dice bene Paolo Borioni in un recente contributo, secondo cui l’Unione Europea “direttamente o indirettamente, incentiva alcuni stati a privare altri della propria base imponibile”; un meccanismo di competizione tra stati che “sovrasta nettamente la cooperazione fra di essi”.
Negli scorsi giorni il responsabile economico del PD Emanuele Felice aveva chiesto la pubblicazione dei “country-by-country report”, ovvero i bilanci con dati sulle attività economiche, gli utili e la situazione fiscale delle multinazionali in ciascun paese in cui operino.
Questi documenti sono custoditi dall’Agenzia delle Entrate ma non possono essere condivisi con il pubblico. Sulla stessa linea è la proposta di Francesco Saraceno e Tommaso Faccio, che auspicano l’introduzione di una clausola di trasparenza nelle misure anti-crisi disposte dai governi europei.
Anche il piano di Felice, contenuto in un emendamento, è stata bloccato dal Tesoro.
Il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano ha quindi richiesto a FCA di diffondere spontaneamente i suoi dati, al fine di aumentare l’accountability della multinazionale di fronte all’opinione pubblica e di dare al governo la possibilità di prendere una decisione sul prestito avendo accesso a tutte le informazioni rilevanti.

La questione FCA solleva domande sul ruolo delle grandi compagnie nel processo produttivo e sul rischio d’impresa, sul quale si basano anche le sostanziose retribuzioni dei dirigenti.
Il 21 maggio John Elkann ha confermato che gli accordi sui dividendi sono “scritti nella pietra e vincolati”. Di fronte a un evento globale di queste proporzioni, non si capisce perché gli unici a non perdere debbano essere gli imprenditori.

È su questo apparente paradosso che pone l’accento Stefano Fassina: se nelle scorse settimane le Confindustrie hanno denunciato l’eccesso di assistenzialismo e la “distribuzione di denaro a pioggia” da parte del governo, sembra  contraddittorio che siano proprio i dirigenti di FCA a chiedere circa un miliardo di euro in garanzie dallo stato. Il deputato propone, oltre a regole più stringenti nell’erogazione degli aiuti, un limite della retribuzione complessiva del management a 20 volte la paga annua degli operai.

 

Guardando al dopo-emergenza, le situazioni di crisi danno l’opportunità di ripensare l’ordine costituito, immaginando modelli più giusti e sostenibili a livello sociale ed economico.
In una recente intervista, Thomas Piketty auspica l’introduzione di un sistema fiscale integrato a livello mondiale, con l’introduzione di un registro finanziario internazionale per contrastare l’evasione da parte di milionari e grandi compagnie. La discussione sul caso FCA ha anche rianimato il dibattito sulla democrazia economica e industriale.
Nell’appello per il lavoro, firmato dallo stesso Piketty e altri 3000 esperti e ricercatori, si sostiene che “le strategie principali e la distribuzione dei profitti sono troppo importanti per essere lasciate interamente nelle mani degli azionisti”.
Per questo motivo, è necessario esplorare vecchi e nuovi tipi di co-gestione delle imprese, apprendendo soprattutto dagli esempi virtuosi, come quello della Germania e i paesi scandinavi.
“Chi investe il proprio lavoro” – recita ancora l’appello – “deve godere del diritto collettivo di appoggiare o respingere queste decisioni”.

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