È il 17 ottobre 1968, si stanno svolgendo le premiazioni alle Olimpiadi di Città del Messico per la gara dei 200 metri piani maschile. Lo stadio è pressoché vuoto, gli atleti statunitensi Tommie Smith e John Carlos, rispettivamente medaglia d’oro e medaglia di bronzo, si presentano sul podio senza scarpe, durante l’inno nazionale americano abbassano lo sguardo e, invece della mano sul cuore, alzano il pugno guantato.
Le “anime del popolo nero”, come scrisse W.E.B. Du Bois agli inizi del ‘900, sono diverse. L’unità del movimento contro la segregazione razziale degli Stati Uniti negli anni ’60 è composita: il sogno e i negro di Martin Luther King facevano parte del “sogno americano” ma a questi si affiancavano i black men e il Potere nero di Malcom X, che del sistema americano aveva una visione imperialista e da incubo. Nel movimento degli afroamericani alla questione della razza si sommava quella della classe e il conflitto sociale e razziale nel paese era sempre più esasperato. Smith e Carlos, mentre denunciavano al mondo intero la piaga del razzismo, con questo gesto mostravano chiaramente di non sentirsi americani. Non è per “loro”, cioè per i bianchi e le loro istituzioni razziste, che correvano.
Pochi giorni prima, il massacro degli studenti messicani in Piazza delle Tre Culture a Tlatelolco non aveva cambiato i piani dei Giochi. Il Comitato Olimpico Internazionale dichiarava che la repressione degli studenti – documentata da Oriana Fallaci per L’Europeo – era una questione interna al Messico e non aveva a che fare con lo sport.
Comunque il rapporto tra sport olimpico e politica sarebbe cambiato profondamente, grazie al gesto di Smith e Carlos: il saluto delle Black Panthers faceva parte del boicottaggio scelto in seno all’Olympic Project for the Human Rights, lanciato dal sociologo Harry Edwards nel 1967, che raccoglieva alcuni atleti olimpici americani contro la segregazione razziale e per i diritti.
Il podista australiano medaglia d’argento, Peter Norman, il secondo uomo più veloce del mondo nel 1968, aderiva alla protesta dei due statunitensi con questa semplice frase: “I will stand with you”. Smith e Carlos in un primo momento mostrano diffidenza nei suoi confronti ma Petern Norman, il bianco, era riuscito nel frattempo a farsi prestare la coccarda del Progetto Olimpico per i Diritti Umani e poi a indossarla come gli altri due sul podio durante la premiazione.
La carriera sportiva di tutti e tre finiva quel giorno.
L’australiano non si è mai pentito e per questo è stato punito. Non viene convocato dal Comitato australiano ai Giochi Olimpici del 1972 e da lì in avanti Peter Norman sarebbe passato attraverso anni di isolamento e ostracismo sociale e professionale. Fino alla morte, avvenuta nel 2006, nessuno ha mai fatto i conti con il valore e le conseguenze della sua solidarietà espressa per la causa dei diritti umani e degli afroamericani.
Peter Norman ha un ruolo di rilievo nella storia olimpica che è frutto dell’incontro tra i suoi grandi traguardi atletici – il suo record del 1968 è tutt’ora imbattuto in patria – e gli eventi globali e rivoluzionari del 1968 che hanno avuto luogo sul palcoscenico delle Olimpiadi e della storia.
I due americani sono riusciti a ottenere piccoli riconoscimenti: nel 2005 è stata eretta una statua in loro onore al college di San José; la statua riproduce il saluto delle Black Panthers alle Olimpiadi del 1968 con le figure di Smith e Carlos, ma il podio del secondo classificato è vuoto per permette alle persone di interagire con la statua. Una scelta che di fatto omette la presenza dell’australiano. L’eredità di Peter Norman infatti fa ancora fatica a farsi strada.
Dal 1968 fino a tempi molto recenti, il Comitato Olimpico Australiano gli ha chiesto di rinnegare il gesto compiuto a Città del Messico, tanto che a causa del suo rifiuto non è stato neanche invitato tra le star dello sport nazionale all’inaugurazione delle Olimpiadi di Sydney del 2000.
Nel 2006 Norman muore e solo sei anni dopo, nel 2012, il Parlamento Australiano gli chiede scusa pubblicamente e ufficialmente.
Cinquanta anni dopo, lo scorso giugno, finalmente, il Comitato Olimpico Australiano conferisce alla famiglia un riconoscimento postumo: l’Ordine al Merito Olimpico.
Esiste poi un comitato che da anni si batte per la costruzione di una statua interattiva a Melbourne, per riconoscere il coraggio di Peter Norman e per celebrare il multiculturalismo della città come modello per il futuro.
Dal Racial Discrimination Act del 1975 sono stati fatti dei passi in avanti ma il razzismo in Australia continua a essere un problema sociale significativo e il paese continua a contraddire, di fatto, il rispetto dei diritti umani.
Non si può tornare indietro, ma la memoria e i riconoscimenti pubblici, politici e sportivi di Peter Norman diventano ancora più importanti oggi dato che la discriminazione razziale verso i migranti, i rifugiati e le minoranze è in crescita in un paese complesso come l’Australia, e non solo.
Anche in Italia e in Europa è tempo di barriere, tracciate sulla linea del colore.
Malgrado le preoccupazioni per la gestione e l’impatto del fenomeno migratorio, molti in Europa restano su posizioni di accoglienza verso gli stranieri, compresi immigrati e rifugiati. La maggior parte della popolazione in Italia oscilla tra rabbia e speranza ed è preoccupata per il crescente clima di razzismo e di discriminazione. Il quadro è estremamente frammentato. Malgrado le forze conservatrici e populiste di destra celebrino i propri trionfi a suon di decreti sulla sicurezza e sull’immigrazione e di attacchi ai diritti fondamentali, tante piazze meticce da Ventimiglia, a Macerata a Catania, a Riace, a Lodi mostrano lo stesso coraggio di un gesto compiuto da tre giovani atleti cinquant’anni fa. Restiamo umani e non pentiamoci, la storia è dalla nostra parte.
Approfondimenti dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Di seguito le pagine del periodico Cuba conservato nella biblioteca della Fondazione, raccontano le olimpiadi del 1968,
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