Il Gruppo di Visegrád (V4) compie trent’anni. Istituito nel febbraio del 1991, è tornato a far parlare di sé nel 2015, all’epoca dell’emergenza migranti in Europa, dopo un periodo vissuto un po’ in ombra. Con questo ritorno sulla scena internazionale si è reso protagonista di uno strappo rispetto all’Unione europea occidentale su aspetti riguardanti la condivisione di valori, doveri e responsabilità all’interno dell’Ue. Più precisamente, il Gruppo attaccava la politica comunitaria in materia di flussi migratori e respingeva il principio vincolante l’erogazione dei fondi europei all’ospitalità da assicurare a migranti e profughi indipendentemente dal parere dei parlamenti nazionali e delle popolazioni interessate.
Questo ambito e, in generale, la tematica dei rapporti con Bruxelles, hanno visto i paesi del V4 raggiungere una convergenza di vedute e fare fronte comune per la difesa dei loro interessi. Una convergenza che, però, come vedremo, non riguarda di certo tutti i campi.
In sostanza, i paesi del Gruppo hanno condiviso l’impegno di salvaguardare il principio di sovranità nazionale a loro avviso minacciato dai vertici di Bruxelles e dalle loro ingerenze negli affari interni degli stati membri. La posizione assunta alla fine dell’anno scorso da Budapest e Varsavia – in sede di accordi per il Recovery Fund – improntata al rifiuto della condizionalità dello Stato di diritto, era motivata da aspetti riguardanti il principio della sovranità nazionale. Il primo ministro ungherese Viktor Orbán affermava e sostiene tuttora di non riconoscere all’Ue o ad altri soggetti esterni l’autorità di stabilire se in un dato paese venga rispettato lo Stato di diritto e che tale valutazione è di esclusiva competenza degli abitanti di quel dato paese. Un punto di vista condiviso dal governo polacco che vedeva nella condizionalità in questione uno strumento concepito per colpire Varsavia ma destinato a creare problemi in termini di stabilità dell’Unione. I due esecutivi respingevano quindi il vincolo del rispetto dello Stato di diritto con il piglio di chi difende le sue ragioni dal banco degli imputati. Non bisogna infatti dimenticare che, negli anni scorsi, sono stati messi in moto i meccanismi previsti per l’applicazione dell’Articolo 7 nei confronti di Budapest e Varsavia per le politiche dei loro governi ritenute lesive dello Stato di diritto. È noto che l’impasse dovuta al veto ungaro-polacco al bilancio europeo è stata superata con un accordo. In questo modo, però, le parti hanno solo preso tempo; restano infatti sempre attuali le inquietudini comunitarie sulla sorte dei diritti violati in entrambi i paesi. Pensiamo solo alla condanna, in Polonia, di due ricercatori e di un giornalista, “rei” di aver raccontato la realtà dei campi di concentramento, o all’episodio, in Ungheria, di Klubrádió, cui il governo ha imposto il silenzio con motivazioni pretestuose legate a presunte irregolarità di tipo burocratico commesse dall’emittente. In realtà Klubrádió è sempre stata critica nei confronti del sistema creato da Orbán e, nel momento in cui scriviamo, continua a trasmettere sul web in risposta al provvedimento che l’ha obbligata alla cessazione della sua attività via etere.
L’episodio del veto e della disputa sullo Stato di diritto ha quindi visto protagoniste l’Ungheria e la Polonia. La faccenda, insomma, non ha riguardato nello stesso modo tutto il Gruppo di Visegrád che, come già precisato, converge su determinati punti e non su altri. Il tema delle relazioni con Mosca, per esempio, vede una disparità di posizioni. Per la Polonia, la Russia è una presenza minacciosa, e la sua diffidenza verso il gigante euroasiatico ha ragioni storiche. Nel caso di Praga e Bratislava le posizioni sono meno nette da questo punto di vista, mentre per il governo ungherese il sistema di Putin è un importante riferimento politico. L’avvicinamento di Orbán al capo del Cremlino è uno dei motivi di critica dell’opposizione politica e sociale ungherese che vede in questo rapporto una spinta data al paese verso derive sempre più antidemocratiche, sempre più lontane dai valori europei, dai principi democratici e dallo Stato di diritto.
Insomma, il V4 non ha certo una connotazione monolitica e al suo interno non vi sono solo convergenze, ma chiaramente anche differenze di vedute e gradi diversi di coinvolgimento rispetto a determinate questioni. La compattezza del Gruppo dipende anche dal momento, dal problema specifico da affrontare e dall’esistenza di elementi sui quali coalizzarsi per fare causa comune. Le condizionalità legate all’erogazione dei fondi europei hanno, come già visto, fornito spunti per un’azione corale. Quando, però, sono state comunicate le cifre previste in termini di Recovery Fund, Budapest e Praga hanno all’inizio dato vita a rimostranze tese a denunciare quelle che per esse erano chiare disparità di trattamento.
Diversa la posizione della Slovacchia che affermava di non potersi lamentare per la somma destinatale, ma di capire la posizione di cechi e ungheresi. All’epoca si era anche parlato di malumori all’interno del Gruppo per il miglior trattamento riservato alla Polonia.
Va a questo punto precisato che, in questi ultimi anni, dal V4 sono partiti anche segnali diversi, certo più apprezzati a livello europeo da istituzioni e da quanti non si riconoscono nell’orizzonte politico indicato dai promotori e sostenitori del cosiddetto sovranismo. Il riferimento è al “Patto delle Città Libere” siglato a Budapest dai sindaci delle quattro capitali. Un’intesa avente al centro un’agenda pro-Ue relativa a diversi campi quali l’ambiente, l’occupazione, l’economia, le relazioni con l’Unione europea e l’utilizzo dei fondi Ue a partire dalle città in questione. La firma ha avuto anche lo scopo di dare in Europa un’immagine diversa del V4 e un segnale di apertura e di volontà di costruire spazi di democrazia condivisa all’insegna dei valori fondanti dell’Unione. Come dire che c’è anche un’altra Visegrád che vuole emergere e opporsi al nazionalismo. Questo particolare contribuisce a descrivere la complessa fenomenologia del V4.
Oggi è comunque interessante capire in che modo l’accordo che compie trent’anni continuerà ad essere strategico per il Gruppo la cui presidenza di turno è ungherese fino a giugno del 2022.
Istituita trent’anni fa per dar vita ad una cooperazione nei campi economico, culturale, energetico e militare, ha avuto anche lo scopo, all’inizio, di promuovere l’integrazione di questi paesi nell’Unione europea attraverso forme di mutuo supporto. Successivamente questa formula ha mostrato di non funzionare pienamente, così i membri del Gruppo sono passati ai rapporti diretti con i vertici di Bruxelles per gestire il loro percorso verso l’adesione all’Ue avvenuta, com’è noto, il primo maggio del 2004. Da allora sono passati quasi diciassette anni e possiamo dire che questi paesi hanno ultimamente contribuito in modo considerevole a evidenziare le disparità di vedute all’interno dell’Ue e i problemi di condivisione esistenti all’interno di questa faticosa costruzione.