Università Cattolica di Milano

La nazione si dà una identità, e la trasfonde nel principio contemporaneo di cittadinanza, basandosi non solo sull’agire inclusivo ma anche sull’identificazione di ciò e di chi vada escluso, di volta in volta, dal consenso comune. Il patto di reciprocità nazionale, che si fa discorso politico sulla cittadinanza repubblicana e poi costituzionale, ha alle sue origini questo inconfessabile movente storico. Quanto ne deriverà, per sottrazione, è il vero nocciolo di ciò che conosciamo come identità nazionale.

La quale si costruirà, nel corso del tempo, una narrazione di sé basata sul tema di una virtuosità di elementi, tra di loro combacianti, di cui lo Stato si incarica di fare da collettore. Tali elementi in realtà non preesistono all’atto stesso del racconto sulle proprie origini. Poiché dire «nazione» implica demandare al senso della sua creazione e la creazione è sempre e solo il ripetersi di un racconto sulle origini. Rinnovato e rimodulato nel corso del tempo. La modernità non ha superato l’assunto esclusivista, semmai lo ha fatto interagire con un cosmopolitismo idealistico, in contrapposizione all’internazionalismo socialista.

Non per questo vale il presupposto di un relativismo assoluto, basato sull’assunto che le comunità immaginate siano destinate ad essere per sempre puramente immaginarie. Mito e razionalità – infatti – si incontrano e si ibridano tra di loro, confondendosi volutamente, attraverso la sacralizzazione della sovranità, il suo determinarsi come religione civile della cittadinanza. Se dal livello analitico questo riscontro di storicità fosse invece trasferito sul piano politico, i principi di legittimità e liceità, che si pongono a fondamento del patto di sovranità, decadrebbero immediatamente. Alla base delle guerre civili, infatti, si pone il venire meno di questi nessi profondi, strutturali, per più aspetti intrapsichici.

La cognizione della dimensione manufatta (a tratti artefatta e artificiosa), quindi, è semmai l’asse sul quale articolare ed argomentare la consapevolezza che il nazionalismo, come struttura ideologica, precede la nazione, generandola attraverso l’intervento di un ceto che si istituisce come dirigente, ossia di un’élite che si assume un tale ruolo. Laddove questo non dovesse succedere, la nazione non si dà.

Poste queste premesse, se la nazione è la perpetuazione del racconto delle proprie origini, allora il rapporto che una tale narrazione collettiva intrattiene con la violenza, in quanto levatrice di storia, è ineludibile. Lo Stato non nasce per escludere la violenza ma per esercitare un plausibile e possibile monopolio su di essa, trasformandola in forza legittima, affinché essa non vada minando, nel suo ripetersi altrimenti individualistico, le fondamenta della coesione sociale. Laddove questa coesione è minacciata da eventi esterni, oppure da dinamiche interne che non possono essere gestite con l’utilizzo degli strumenti ordinari, il ricorso alla forza, ovvero la liberazione della violenza e il suo esercizio dentro i quadri di una legittimità che lo Stato si dà da sé, essendo giudice di se stesso, è pressoché immediato.

La questione sulla quale interrogarsi, quindi, non è il perché ci sia ancora violenza ma quanto di essa sia incorporata nel moderno Stato e quali siano le ricorrenze nelle quali ne fa ricorso, per affrontare i nodi che altrimenti non riuscirebbe a sciogliere. La violenza istituzionale, e con essa il razzismo leso lecito nel discorso di senso comune, quindi nelle relazioni sociali quotidiane, opera come elemento di riaggregazione della comunità. Per noi europei, a più di settant’anni dalla conclusione del secondo conflitto mondiale, concepire (che è ben altra cosa dall’accettare eticamente) un tale stato di cose è al limite dell’intollerabile. Il sistema liberale, venendo meno al suo stesso dispositivo originario (individuo, evoluzione, competizione) ha espulso dal campo del discorso di senso comune il confronto sul conflitto, sottoponendolo a una serie di interdetti ideologici. Ma ciò che è rimosso non per questo scompare, semmai si riafferma carsicamente.

Il processo di omologazione delle comunità in un’unica società ha peraltro bisogno di attivare, alimentare e vivificare, la dialettica tra le minoranze e maggioranza. È un falso storico l’idea che possano esistere stati monoetnici, non solo per l’impraticabilità materiale della generalizzazione di una matrice (l’etnia) che è esclusivamente un prodotto al medesimo tempo romantico e manipolatorio, ma anche e soprattutto perché nessun Paese può esistere – ossia, può dotarsi di una continuità – se non ha minoranze sulle quali esercitare un gioco di pesi e contrappesi, a volte esclusivisti, per orientare la maggioranza nelle sue prevedibili condotte.

Il fuoco del discorso nazionalista e poi razzista, in tutte le sue declinazioni, quindi, non è l’alterità ma l’alterazione che la minoranza minacciosa introdurrebbe dentro l’organismo nazionale, la sua armonia olistica, nei momenti di crisi dell’accordo sociale. Anche da ciò la necessità di introdurre l’accusa rivolta agli «altri da sé» di non essere umani, ovvero del disumano permanente, della ferinità debordante. Poiché il perimetro della nazione deve coincidere, per creare consenso, con quell’idea di umano che va coltivando come proiezione della sua legittimità storica. La quale, a sua volta, neutralizza il conflitto sociale trasferendolo nella guerra etnica. I processi di «nazionalizzazione delle masse» incorporano questa procedura di senso collettivo. Non è solo l’autoritarismo il fondamento che crea il «nemico» (interno o esterno, in un gioco di infinite intercambiabilità) ma l’autorità che governa la socialità introducendosi nel privato per determinare lo spazio di campo del lecito e dell’inaccettabile nei momenti dell’emergenza, quindi della trasformazione profonda delle coordinate comuni. Il fascismo storico aveva compreso appieno un tale percorso collettivo. Da ciò la sua modernità e attualità.

Sulla dialettica tra inclusione, diritto e apolidia va quindi riconosciuto che storicamente la nazione ha bisogno di apolidi per potere esistere. I veri confini sono tracciati non solo dai muri perimetrali ma anche dalla negazione della cittadinanza, ossia della titolarità di diritti legalmente riconosciuti e concretamente fruiti. Il migrante, l’errabondo alla ricerca di riconoscimento, non solo economico, risponde a questa logica. Non è necessariamente solo l’altro da sé ma ciò che non si vuole comprendere di sé. È una figura perturbante, oscura, tendenzialmente anarcoide perché disintegra – letteralmente, nel senso etimologico della parola – il fondamento intimo e diretto che lo Stato vuole riaffermare del rapporto tra territorio e propria legittimità. Il campo della riflessione, in un’età globalizzante, dove la forma merce precede e segue l’umano che è in ognuno di noi, di fatto sopravvivendogli, dovrebbe forse concentrarsi su questa reificazione della terra che il cosiddetto sovranismo ha reintrodotto a pieno titolo nel senso comune. Più che il solo George Orwell di 1984 forse sarebbe il caso di recuperare il capolavoro di William Golding Il Signore delle Mosche.

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